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POST-TEISMO:
DIO NON E’ LA RISPOSTA, E’ LA DOMANDA

Sergio Paronetto 

 Il ripensamento post-teista della fede alla luce delle scienze moderne solleva temi importanti orientati ad affermare una nuova idea di Dio. L’argomento, come si dice, è vasto e complesso da far tremare le vene e i polsi. Possiamo solo balbettare. Davanti a una questione così grande, mi sembra decisivo non chiudere mai la ricerca (antropologica, filosofica, teologica, scientifica), non fermarsi su nuovi concetti di Dio ritenuti più credibili col rischio di produrre nuovi dogmi vincolati a una visione scientifica considerata conclusiva. La fede, come la scienza, è sempre itinerante, aperta all’inedito,  intrecciata alla “meraviglia” come radice della sapienza. Non offre risposte definitive. Ama la fecondità del dubbio. Coltiva l’intelligenza della domanda.

Tradizione e tradizioni
Occorre, certo, superare la vecchia tradizionale immagine di Dio, proposta da larga parte del cristianesimo “ufficiale”, lontana dal dinamismo del pensiero umano. Ma ciò si può fare anche recuperando e sviluppando quanto nella stessa tradizione cristiana era stato più volte immaginato (anche se inizialmente rifiutato o addomesticato). Ne ha scritto a lungo Matthew Fox nel libro In principio era la gioia dove elenca le varie teologie o forme di spiritualità fiorite lungo i secoli. Le colloca da un lato nella spiritualità della caduta- redenzione, dall’altro nella spiritualità del creato. Molto spazio viene dato, ovviamente, alle visioni dei mistici e delle mistiche prima, durante e dopo il Medioevo, tra i quali Eckhart, Cusano, altri o altre fino all’amato Teilhard de Chardin e alle teologie della liberazione.

Capita spesso che immagini diverse di Dio si possano trovare anche in autori annoverati, per così dire, tra i “tradizionalisti”, compresi Agostino e Tommaso. Capita, a volte, che qualche tradizionalista sia un innovatore e che qualche mistico radicale, fautore di una accesa spiritualità (come s. Bernardo), risulti molto reazionario quale difensore del “malicidio”, della “guerra santa”. E’ ovvio che sono diverse, anzi opposte, le visioni quasi contemporanee di Francesco d’Assisi e di Innocenzo III, di Celestino V e di Bonifacio VIII, per non parlare delle differenze e contrasti tra Concilio di Trento e Concilio Vaticano II, tra Cartesio e Pascal, tra filosofia neoscolastica e personalismo cristiano, tra modernisti e intransigenti di inizio Novecento o tra gli ultratradizionalisti cattolici e papa Francesco. Tali posizioni convivono in tutte le religioni e spesso nello stesso sistema culturale di appartenenza, soprattutto nei loro rapporti con la politica che  condiziona qualunque espressione religiosa.

Testi biblici e simbolismo
Un discorso analogo si può fare, a mio parere, analizzando i testi biblici, scritti nell’arco di circa otto secoli, e contenenti vari modi di concepire Dio. Schematizzando, da un lato incontriamo un dio guerriero e violento, onnipotente e padrone, nazionalista etnico, geloso e irato, maschilista e patriarcale, sacrificale ed escludente. Dall’altro, un Dio padre e madre, cosmopolita e inclusivo, spirito e verità, sapiente e giusto, nonviolento “principe della pace”, misericordioso, femminile, identificato nei poveri (Matteo 25), incarnato in Gesù, celebrato nel Cristo. Papa Francesco ha riassunto le vecchie superate idee di Dio domenica 16 novembre 2022 basandosi su Luca 4 e proponendo una presenza di Dio come amore liberante e spirito amante.

Nei testi biblici, scritti in epoche e luoghi diversi, si sono inevitabilmente incrociate diverse culture supportate da diversi criteri di pensiero che è necessario conoscere per evitare interpretazioni letterali e superficiali, buone a tutti gli usi. C’è il criterio mitologico, quello nazionalista etnico, quello patriarcale padronale, quello teocratico monarchico, quello sacrale vittimario, quello doloristico espiatorio, quello sessuofobico e maschilista, quello apocalittico in senso catastrofistico. Accanto o dentro queste modalità, emergono altri criteri: quello spirituale e contemplativo, quello profetico e sapienziale, quello umanistico e cosmopolita, quello evolutivo e itinerante, quello relazionale e agapico, quello apocalittico orientato alla speranza.

In ogni caso, secondo me è bene tener presente il linguaggio simbolico dei testi, diverso da quello razionale o scientifico. Esso rappresenta un altro modo di pensare e di vivere che non può essere valutato in rapporto alla razionalità scientifica. Non può essere trasferito immediatamente nel ragionamento critico circa il carattere antropomorfico o arcaico, non accettabile, delle immagini di Dio. Il simbolo, come scrive Paul Ricoeur, “dà a pensare”, contiene una “sovrabbondanza di senso” (cfr Della interpretazione e Finitudine e colpa), veicola pensieri-esperienze-sentimenti poetici, estetici, etici e culturali legati, direbbe Husserl, al “mondo della vita” che è sempre differente da qualunque argomentazione razionale, antica o moderna. E’ sempre oltre o, se vogliamo, dentro la profondità dell’umano, portatore di emozioni e desideri che si esprimono in varie forme poetiche e nei simboli. E il cuore, pascalianamente, ha sempre delle ragioni che la ragione scientifica anche più raffinata non può conoscere.

Scienze e fede
La fede, quindi, per essere credibile, certamente deve far riferimento alle scienze moderne (fisica quantistica, biologia molecolare, neurologia, cosmologia e altro) ma non può derivare da esse per tre motivi: perché anch’esse sono relative, sempre in evoluzione e potrebbero tra qualche anno approdare a nuove (parziali) acquisizioni; perché esiste sempre il rischio dello scientismo o, come scrive la Laudato sì, di un “paradigma tecnocratico” fautore di una modernità riduttiva, ingiusta e violenta; perché esistono anche altre realtà culturali con cui confrontarsi, come la psicologia, l’etica, l’estetica, quindi la poesia che scava nella profondità dell’umano.  

Al riguardo, secondo me ogni nuova idea di Dio (compresa quella dei post-teismi) sarà sempre limitata, parziale, superabile davanti al mistero infinito di Dio e della persona umana di cui non conosciamo ancora le profondità. Alcuni post-teisti scrivono che Dio non può essere antropomorfo come l’abbiamo immaginato e tramandato. Secondo le indicazioni della scienza, potrebbe essere concepito solo come “impersonale”.

Al riguardo, sento il bisogno di distinguere. Forma umana e persona non sono la stessa cosa. Antropomorfismo vuol dire dare-avere una forma umana, persona indica un’identità relazionale in costruzione basata su coscienza, consapevolezza, libertà, desiderio, volontà di bene. Superare un dio antropomorfo non significa, quindi, abbandonare l’idea o, meglio, l’esperienza di un Dio personale. D’altra parte, è impossibile, per noi persone, non essere  personali. Sempre, secondo me, pensiamo a Dio in termini personali, anche quando lo neghiamo o lo vediamo come transpersonale.

Se diciamo che è solo pura energia, fluido vitale oppure fondo dell’essere, ultimità (o usiamo metafore simili), rischiamo di tornare o ai miti cosmici, alle ierofanie sacre e ai modelli rituali dell’umanità primordiale, ben illustrati nei volumi di Mircea Eliade o di Van der Leeuw (che ho studito in gioventù), cioè al naturalismo arcaico, oppure all’aristotelico “pensiero di pensiero”, allo spinoziano “Deus sive natura”, all’hegeliano “spirito assoluto”, a forme di deismo massonico (espressioni pregevolissime del pensiero che sento, però, lontane da una visione a un tempo razionale (laica), evolutiva e appassionata (etica) della vita, dalla passione intima alla nostra itinerante umanità.

È nell’umano che dobbiamo scavare. È nel diventare umani che possiamo incrociare il senso di un’esistenza autentica, bella e vera, utile e buona, quindi sempre relazionale e interconnessa. La Bibbia parla del nostro “cuore” come luogo dell’identità personale più segreta e infinita, capace di sapienza e di misericordia. Alla fine del suo libro Deus due punto zero, Paolo Gamberini riporta una bella frase della Laudato sì 239: “ogni creatura porta in sé una struttura propriamente trinitaria, così reale che potrebbe essere spontaneamente contemplata se lo sguardo dell’essere umano non fosse limitato, oscuro e fragile”.

Una domanda sempre aperta
Cos’è la persona umana? Secondo me, avendo uno sguardo sempre limitato, oscuro e fragile, non possiamo mai saperlo bene, né averne compiuta esperienza. C’è una profondità interiore che ancora non conosciamo e che forse, dati i nostri limiti, non potremo raggiungere. Mi ha colpito da giovane il titolo di un libro di Carrel, L’uomo questo sconosciuto. Ernesto Balducci osserva che siamo in cammino verso l’uomo inedito, inesplorato, planetario. Lo stesso Agostino riconosce di essere un “enigma” a se stesso. Maria Zambrano o Pablo Neruda dichiarano che “siamo nati per rinascere”.

Romano Guardini, nel suo prezioso Ritratto della malinconia, parla del “germe di eternità” presente in noi come inquietudine perenne. Emily Dickinson scopre in sé un panorama grande, dice di “abitare il Possibile”, osserva che “chi ama non conosce la morte perché l’amore fa rinascere la vita nella divinità” e che l’eternità è come “l’infinito di mari” che possiamo navigare. Concordo con chi dice che la nostra identità viene dal futuro, che siamo spinti dal “principio speranza” o dalla “promessa” dello shalom biblico, da accogliere come dono e impegno. Insomma, siamo sempre al di qua di noi stessi, ai bordi del nostro pozzo interiore. In questo percorso entriamo nel mondo sconosciuto della nostra intimità più segreta e autentica.

Penso che siamo una domanda sempre aperta come Dio.  A evidenziare questa vocazione stanno i testimoni della nonviolenza, che vedo come profondità inesauribile dell’umano, grazia creativa e inedita, beatitudine in cammino, liberazione della nostra umanità. In sintesi, forza di verità, fame e sete di giustizia, spirito di libertà, passione d’amore (sono le quattro caratteristiche dalla pace presenti nella Pacem in terris e riproposte da Francesco nel suo discorso al corpo diplomatico del 9 gennaio 2023).

Fede come lotta nonviolenta
A mio parere, oggi lo sforzo dei credenti, impegnati nell’aggiornare o modificare l’idea di Dio, consiste proprio nell’assunzione della nonviolenza come sostanza e stile della propria vita personale e comunitaria e, quindi, come ricerca comune per affrontare le sfide del mondo moderno ingiusto, violento e ferito. Il male che ci circonda è grande. Esso manda e manderà in crisi qualunque nuova soddisfacente immagine di Dio e qualunque considerazione trionfante dell’evoluzione o del progresso.

Il tema del male è sempre stato lo scoglio di ogni filosofia e teologia. Esso convoca i credenti a testimoniare la fede come lotta nonviolenta di liberazione umana. Solo così, credo, nel vivo dei problemi, si può rinnovare la propria fede come conversione al bene, risveglio di una nuova spiritualità, lotta per la pace, l’accoglienza, la giustizia, la cura del creato, la felicità delle persone. Francesco lo afferma sia negli Incontri con i Movimenti popolari (2014, 2015, 2016, 2021), sia nel famoso Documento di Abu Dhabi (2019), sia negli incontri interreligiosi in Kazakhstan (settembre 2022) e nel Bahrein (novembre 2022), sia nel tentativo di aprire (dal 2015) un percorso sinodale, ancora poco frequentato.

Ogni ricerca di Dio deve essere parte integrante della ricerca di una novità di vita per la famiglia umana dove Dio opera come ospite silenzioso in modo personale, transpersonale, interpersonale (relazionale e trinitario). Così scrive David Maria Turoldo: “Dio non è una risposta, è la Domanda. […]. Tempi grami viviamo. Tempi senza amicizia […]. Siamo tutti dentro un sistema nel quale l’uomo non conta più nulla. E’ il sistema più disumano e ateo che si possa immaginare […]. Come sono eroici quei giovani che riescono ancora a coltivare delle amicizie. Infatti, la fraternità umana è la ragione stessa dell’esistere […]. Il rapporto col prossimo è il punto assoluto di partenza e di arrivo di ogni convivenza” (Il dramma è  Dio).

Sono idee che accompagnano Etty Hillesum quando si propone di essere “il cuore pensante della baracca” (mondo), l’ “alternativa luminosa” nel buio dello sterminio, pronta a “disseppellire Dio dai cuori devastati” e dal continente immenso della nostra travagliata umanità (Diario 1941-1943).

Sergio Paronetto
Laureato in filosofia della religione, è stato docente di letteratura e storia e vicepresidente di Pax Christi. Membro del Gruppo per il pluralismo e il dialogo (Verona) che aderisce alla Rete dei Viandanti 

[Pubblicato il 26.4.2023]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: filodritto.com]

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