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RIPENSARE LA QUESTIONE
DEGLI IMMIGRATI

Fabrizio Filiberti

Occorre tornare ad occuparci dell’immigrazione. Molte nostre parrocchie (questa volta non la Chiesa nella sua voce ufficiale) stanno affondando. In preda ad un’incapacità di discernimento – nel senso del non avere gli strumenti per giudicare i fatti, ma anche del non saper attingere al patrimonio della fede che offre indicazioni di principio inequivocabili – vivono un più o meno taciuto disagio nel sentire voci diverse e antagoniste: le sirene di una politica che fa del contrasto dell’immigrazione la priorità (la stessa parola “contrasto” imprime già una precisa disposizione…); la voce del Papa e di parte del mondo cristiano, che ritengono prioritario salvare le vite; le voci di un mondo laico che, anche in modo serio e moderato, affrontano il problema cercando linee di soluzione sulle quali si è spesso divisi e spinti a polarità inconciliabili.

Occorre tornare a riflettere
Questo scenario offre la normalità di una situazione complessa, epocale (non emergenziale!) che mette alla prova posizioni consolidate e quadri di valori di solito facilmente applicabili alla quotidianità.

È bene, per noi credenti, ritornare a riflettere. Parlarne senza timore, farne un’analisi che non offende né giudica. Alcune posizioni, incivili, inumane, si mostrano in fondo da sé e come risposta non hanno che quella del profeta al popolo dal cuore indurito, dalla crosta dura che nessuna buona predica sa scalfire perché “ascoltano e non intendono”.

Altre sono le persone che, sinceramente, cercano di posizionarsi di fronte ad un tema che tocca le viscere, il radicamento nella terra e il sangue di ciascuno, con tutte le conseguenti disposizioni di difesa, di giusta pretesa di sicurezza, garanzia per sé e i prossimi vicini.

Questa dimensione di radicamento, che un giurista (C. Schmitt) chiama “nomos della terra”, “legge della terra”, è una predisposizione naturale che il cosiddetto populismo rende mediatica e strumentale.

Tutti siamo figli della terra e tendiamo a rivendicarla: la mia terra, i miei dèi, la mia cultura ecc. Di qui il “prima noi!”, “prima gli italiani!”. Non c’è destra o sinistra, credente o non credente, cattolico o meno, che non si nutra in profondo anche di questo radicamento. Dunque?

Dalla “legge della terra” alla “legge dell’alleanza”
Occorre far mente locale alla storia della nostra civiltà, che ha sviluppato, per vie diverse, una contrapposizione al regime ristretto della “legge della terra” – potenzialmente pericoloso, perché separatista, sovranista, xenofobo. In particolare, e non può essere dimenticato da parte cristiana, è proprio la tradizione biblica ad avervi impresso una forte destrutturazione attraverso l’esperienza ebraica, prima, e cristiana, poi.

Al “nomos della terra” l’esperienza biblica di Israele sostituisce il “nomos dell’alleanza”: risalendo all’Egitto, dove il popolo sperimenta una condizione di immigrato-schiavo, scopre un Dio straniero – cioè non organico alla terra e al sangue del popolo, come lo erano tutti gli dèi antichi, compresi i probabili originari dèi delle tribù israelitiche (“Dio, popolo, nazione” ne è una nota variante moderna).

Un Dio straniero/estraneo che libera quel popolo straniero (Es 2,23-25). Un Dio straniero che per pura scelta libera, elegge un popolo straniero per farne una nuova identità, il “Suo popolo”. Questo avviene con l’alleanza del Sinai. Attenzione: qui non si ricrea una organicità vincolante, ma un legame di alleanza, principio di nuova identità cui corrisponde anche la promessa della terra, che si fonda sulla reciproca corrispondenza, sulla libera adesione: né carne e sangue, né autoctonia. La relazione filiale con Dio e la fraternità è frutto di una volontà libera: non si nasce “popolo di Dio”, si è scelti e si sceglie di esserlo.

Il riemergere delle pulsioni identitarie
Purtroppo, sappiamo, come questa logica di alleanza, che prevedeva non solo il riconoscimento dell’unico Dio liberatore e provvidente, ma anche l’assunzione della stessa logica tra fratelli, non abbia dato i frutti sperati.

Israele non solo ha commesso idolatria (ha preferito appellarsi agli dèi pagani, al vitello d’oro, immagini certe, a fronte di un Dio (YHWH) dal nome impronunciabile e dai “disegni” imperscrutabili), ma ha anche praticato l’ingiustizia, non ha reduplicato quella logica di libertà, dono, accoglienza dell’altro (in ebraico “altro”, acher, contiene “fratello”, ach, quindi con una istanza universalizzante) sigillata dal comando “Non molesterai il forestiero, né lo opprimerai perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto” (Es 22,20).

L’accoglienza, si noti, non è motivata da proclamati diritti umani, identità di cultura, religione ecc., ma dal principio che Dio si è preso cura, ha scelto lo straniero, l’immigrato, l’uomo, altro da sé, in forza esclusivamente del suo bisogno e della sua sofferenza.

Purtroppo l’Israele storico si è piegato alle esigenze del “nomos della terra”, alle pulsioni identitarie. Anzi, l’atto costitutivo dell’Israele giudaico, tra IV e III secolo a.C., nasce (si vedano i libri di Esdra e Neemia) con una serie di distinzioni, epurazioni, rifiuto dei matrimoni misti, dei non ebrei, dei non circoncisi ecc., che porteranno all’esclusivismo, facendo del popolo ebraico una entità spesso vista come “altra” dagli altri popoli, con lunghe e dolorose conseguenze nella storia.

La legge della fede
Di ciò fu consapevole anche quell’ebreo di nome Saulo di Tarso, detto Paolo. La sua vita è stata sconvolta dall’incontro con il Cristo Crocifisso e Risorto. Paolo, viveva pienamente il “nomos della terra” e il “nomos dell’alleanza”, come lui stesso dichiara.

Ma l’incontro con Cristo destabilizza questo vissuto e lo apre a quello che chiamerà il “nomos della fede”: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei [nomos della terra]; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile [nomos dell’alleanza].

“Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo.  […] Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede [nomos della fede]” (Fil 3,5-9).

Un dibattito nella prima comunità cristiana
Proprio all’interno delle comunità cristiane si sviluppa il dibattito sul valore per la salvezza dell’appartenenza etnica (la Chiesa comprende che la missione è a tutte le genti), e dell’adesione alla Torah e in particolare alle prescrizioni sulla circoncisione, l’alimentazione, che identificano il “popolo eletto”.

I cristiani si dividevano sulla necessità di rispettarle (ad esempio Giacomo, Pietro, Barnaba) o di ritenerle superate, soprattutto per chi aderiva al battesimo provenendo dal mondo pagano (Paolo, in parte Pietro). Ebbene, proprio la linea paolina – peraltro inizialmente perdente – s’imporrà nella comprensione della fede: in Cristo non contano più terra, sangue, Legge, sesso, ruolo sociale.

“Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).

Paolo comprende che solo un elemento – la fede nel Cristo Risorto – “irriducibile” e “estraneo” al mondo, ai suoi valori, alle sue ideologie (politiche o religiose), estraneo a tutto ciò che rischia di radicare nel particolare (etnico, religioso), può promuovere e garantire la salvezza universale.

L’altro, un fratello
L’Evento Cristo è questa realtà completamente estranea, straniera, è il “regno che non è di questo mondo”: non paradiso post mortem, ma anzitutto un principio che scardina le logiche di “questo mondo” e che consente la realizzazione della fraternità universale.

Se c’è un elemento di novità della fede in Cristo è questo. Non c’è un “prima i giudei”, “prima gli italiani”, “prima i miei figli”, “prima chi ha la mia religione” che possa condizionare l’accoglienza dell’altro, perché l’altro (acher) è il fratello (ach).

Tutto il resto, viene in seconda battuta, e appartiene alle soluzioni politiche di “questo mondo”. Su questo possiamo avere punti di vista anche diversi, perfino divisivi, come è ogni faccenda di questo mondo.

Finché nel dibattito e nelle scelte non si inseriscono parole che minano ciò che è primario (l’uomo), potremo guardare alla dialettica di ogni giorno con fiducia, rispetto e, forse, anche stima per chi sta sull’altro fronte della discussione.

Annunciatori della condizione di stranieri
Il “nomos della fede” che è “fede in Cristo”, non ha altro nome sotto questo cielo che l’umanità dell’uomo. Diritto e dovere consegnatici, ai quali rispondere “senza se” e “senza ma”.

La Chiesa, le nostre comunità, quindi, devono custodire questo dono di fede, testimoniarlo, alimentando in se stesse e negli altri la capacità di incarnazione, tenendo aperta la soglia all’alterità: siamo in fondo noi stessi “come immigrati (paraikoi: parrocchiani, paradossale termine che oggi indica sovente “radicamento”, “distinzione”, “contrapposizione”!) che hanno il permesso di soggiorno…Ogni terra straniera è patria, ma ogni patria è terra straniera”.

È la lettera A Diogneto (II sec. d.C.) che delinea l’essere dei cristiani nel mondo pagano: “Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure portano i pesi della vita sociale con interiore distacco…Obbediscono alle leggi stabilite, ma col loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi”.

Di tale condizione di stranierità, di non attaccamento a tutto ciò che chiude e rinchiude, il cristiano è l’apostolo, l’annunciatore.

Fabrizio Filiberti
Presidente di “Città di Dio” Associazione ecumenica di cultura religiosa – Invorio (NO), aderente alla Rete dei Viandanti.
Membro del Gruppo di riflessione e proposta (Grp) dell’Associazione Viandanti.

[Pubblicato il 30.9.2019]