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IL GENDER NELLA SOCIETÀ DEL NARCISISMO

Simonetta Giovannini 

Alla luce di un episodio recente, avvenuto a Bolzano, vorrei introdurre una riflessione sul tema del gender e sui possibili usi di questo concetto.

Un’iniziativa discutibile
Si è trattato di un infuocato dibattito sull’argomento, dovuto alle proteste di un gruppo di genitori per la scelta dell’Intendenza scolastica di far rappresentare a teatro, tra gli spettacoli destinati agli alunni di scuola media, la pièce Fa’afine. Mi chiamo Alex e sono un dinosauro, per la regia di Giuliano Scarpinato.

Lo spettacolo proporrebbe la storia di un ragazzino che non riesce a identificarsi pienamente e costantemente con nessuno dei due generi codificati, maschile e femminile; quando s’innamora di un compagno capisce che l’alternanza non gli basta e che vorrebbe appartenere a entrambi.

Il dibattito è stato greve, comprensivo di illazioni insultanti e fuori luogo sull’orientamento sessuale del regista e di parole altisonanti (Scienza, Natura, Realtà), chiamate in causa a sostegno di una visione inconsapevolmente fobica ed essenzialista della questione. Si è maschi o femmine, Natura ce lo impone, la Scienza lo conferma, la Realtà non prevede dubbi o alternative.

Il dibattito è stato anche surreale perché lo spettacolo non l’aveva visto nessuno dei partecipanti, a parte il suo autore e il direttore artistico del Teatro stabile di Bolzano. Infatti, alla richiesta di poter vedere anticipatamente la rappresentazione, avanzata da alcuni genitori all’Intendenza scolastica, si è preferito rispondere con un rifiuto.

La difficoltà di un discorso educativo
Certo la superficialità e l’improvvisazione con cui qualche volta s’introduce a bomba il tema del gender in contesti educativi non favorisce una serena discussione sull’argomento.

Si renderebbe necessaria una preventiva preparazione, una più graduale sensibilizzazione, anche per superare o quanto meno gestire con competenza le polarizzazioni ideologiche e generalizzazioni dovute all’ingresso del termine gender sulla scena pubblica italiana, avvenuto in occasione del dibattito che ha accompagnato l’iter legislativo in merito alle unioni civili.

Si richiederebbe un preliminare approfondimento del tema, magari con la consultazione di esperti. Dovrebbero essere chiari gli obiettivi pedagogici che la scuola si propone nell’affrontare una tematica così vasta e articolata, nella consapevolezza della varietà e, talvolta, della reciproca incompatibilità degli approcci antropologici e culturali sottesi agli studi di genere.

Questo episodio di Bolzano, invece, ha fatto emergere una sostanziale sprovvedutezza e incapacità, da parte dell’istituzione scolastica, quanto meno a livello locale, di dare ragione delle proprie scelte, di rispondere alle prevedibili obiezioni, di motivare in modo argomentato e serio la decisione di introdurre, sia pure episodicamente e a latere rispetto alle attività curriculari, il tema della fluidità di genere nella proposta educativa e didattica delle scuole medie provinciali.

Il compito di difendere l’iniziativa è stato indebitamente delegato al giovane regista, che ha fatto quel che ha potuto ma era fuori ruolo. Sostenere le scelte educative e formative non compete al teatro ma alla scuola.

Studi di genere e non ideologia del gender
La difficoltà del discernimento è dovuta anche al fatto che il campo è delicato, le distinzioni sono sottili e le classificazioni rassicuranti ma talvolta riduttive. Soprattutto quando si tratta di soggetti in crescita. E si può capire: le questioni relative all’identità sessuale e di genere, essendo tra quelle che attengono più profondamente al modo che ognuno ha di percepirsi, sono tra le più sensibili: come una sorta di diapason capace di rilevare il grado, maggiore o minore, di maturità e autoconsapevolezza raggiunto dai singoli individui come dalla collettività.

L’ideologia gender, la quale ha il potere di suscitare tanta ansietà, in realtà non esiste, nel senso che non ha documenti né manifesti né sostenitori dichiarati. È così. Ovviamente l’interesse di chi ha dedicato tempo, energia e passione ad approfondire gli studi di genere è che un così prezioso e variegato strumento euristico non vada compromesso da usi tendenziosi e da anatemi. Tuttavia è sempre opportuno, nell’affrontare queste tematiche, tenere conto del fatto che non tutti condividono lo stesso interesse.

Certo non lo coltivano le Sentinelle in piedi o altri gruppi e soggetti integralisti che confondono la tradizionale divisione dei ruoli tra uomini e donne con una verità immutabile, biologicamente fondata. D’altro canto il fatto che non esista in forma esplicita la cosiddetta ideologia gender non è di per sé del tutto rassicurante.

Dietro la “diceria dell’untore” secondo la quale esisterebbe un disegno, sostenuto da potenti lobbies internazionali, volto a promuovere la versione più estrema e decostruttivista del gender, quella, per intendersi, secondo la quale l’individuo può prescindere completamente dal dato biologico della sua identità sessuata, potrebbe darsi una tendenza davvero presente in un orizzonte culturale ampiamente connotato, come gli addetti ai lavori e non solo loro denunciano da anni con allarme, da una deriva narcisistica sempre più preoccupante.

Le dinamiche intrapsichiche
Un tratto proprio del narcisismo malato, si sa, è l’onnipotenza. E cosa c’è di più onnipotente del rifiuto – o diniego – delle origini? Della pretesa di farsi da sé? E magari di farsi e reinventarsi camaleonticamente ogni volta di nuovo dal nulla? Lo psicoanalista francese Paul Claude Racamier, tra i primi a indagare le dinamiche intrapsichiche e sociali del narcisismo perverso, ha messo in luce questo tratto con finezza e precisione nel suo grande saggio Il genio delle origini.

Un tratto ulteriore della patologia narcisista è la tendenza a ridurre, avvilire, neutralizzare in vario modo l’alterità in ciò che ha di peculiare e proprio. A eliminarne le specificità, la singolarità. A misconoscere e svalutare la differenza.

Altrettanto potente, nelle strutture narcisistiche di personalità, può essere l’evitamento del confronto con le proprie contraddizioni e i propri conflitti interiori e il conseguente appiattimento dell’identità sui ruoli socialmente e culturalmente codificati. L’omofobia ha qui una sua radice. Così come Infine c’è, in questi contesti patologici, la tendenza alla comunicazione ambigua e indiretta, evitante un’esplicita dichiarazione di intenti.

Nel conteso della manipolazione
Nell’affrontare il tema del gender in un contesto culturale connotato da frequenti e quasi sistematiche manipolazioni e falsificazioni narcisistiche, fatalmente ci si imbatte in un paradosso: lo stesso strumento concettuale che può essere proficuamente impiegato per promuovere l’individuazione di ognuno, per indagare e valorizzare la differenza – quella tra uomini e donne ma anche l’ecceitas [ciò per cui un individuo è quell’individuo e non un altro, ndr] individuale rispetto agli stereotipi, alle maschere, ai ruoli codificati – può essere subdolamente o inconsapevolmente inteso anche all’annullamento delle differenze, dell’autentica vita e identità personale, che non parte dal nulla ma muove sempre da un’origine, da una nascita, da un dato inscritto nella nostra corporeità e nella nostra psiche; non è pura invenzione arbitraria ma creativa scoperta e costruzione di sé. E nemmeno s’identifica con la presunta immutabilità ontologica di ruoli di genere precostituiti.

Una domanda degna di tempi borderline
Rispetto agli usi che di questo strumento concettuale vengono fatti, soprattutto nel campo educativo ma non solo, dovremmo dunque porci preliminarmente una domanda “biblica”: in questo particolare caso il gender serve alla vita o alla morte? Può sembrare un’alternativa estrema e forse lo è, e in quanto tale è degna dei tempi borderline che stiamo vivendo.

Per semplificare al massimo: la vita promuove la singolarità: non esiste un individuo, un esemplare vivente uguale a un altro. La morte invece è entropia, annullamento delle specificità, ritorno all’indifferenziazione. Riformulata in altri termini la questione è: in questo caso specifico la tematizzazione del gender è finalizzata ad accrescere l’autoconsapevolezza, a promuovere la ricerca di chi si è nel profondo, a valorizzare la differenza, la novità personale che ciascuno rappresenta a partire dalla sua originaria, benché non esclusiva, identità sessuata e dalla sua storia? E a darci il senso e il valore della differenza come del dono che l’altra/o rappresenta per noi e per il mondo? O invece è orientata ad una – consapevole o meno, pianificata o sprovveduta – narcisistica neutralizzazione delle differenze, a una riduzione dell’altra/o al medesimo, all’interscambiabilità indifferenziata e strumentale dei corpi e dei soggetti, a una loro cosificazione?

Anche questo infatti è un aspetto del narcisismo malato, che, guidato da un impulso di morte e nell’incapacità di stabilire una vera relazione con l’altra/o, propende per interazioni strumentali, in cui l’altro è di fatto invisibile in quanto altro, in quanto dotato di una propria autonomia e vita, ed è in fin dei conti interscambiabile e sostituibile con chiunque. E questo accade perché, al di là di un’illusoria e infantile immagine onnipotente, il narcisista in definitiva odia e vorrebbe neutralizzare innanzitutto se stesso, il suo vero sé.

Per una divulgazione argomentata e seria
In una società caratterizzata dal forte impatto di modelli narcisistici sulle modalità e dinamiche delle interazioni private e pubbliche, sulla cultura e sulla comunicazione, risulta dunque urgente una capacità di analisi che tenga conto di questi fenomeni.

Certo, il discrimine non è sempre evidente e netto. La domanda è forse troppo basica e rozza. Certamente le risposte non sono e non saranno sempre semplici e immediate ma dipenderanno da un discernimento vigile, attento e non pregiudiziale. Ai linguaggi, alle proposte, ai presupposti. Che non andranno dati per scontati e accettati supinamente in nome di una correttezza politica che a volte rende acritici e vigliacchi.

Bisognerà imparare a porsi e a porre domande. Ad approfondire senza preconcetti. A cercare insieme, attraverso il dialogo e il confronto, le premesse antropologiche e il senso formativo di attività e iniziative. A darne e chiederne ragione.

È un compito difficile, credo, in tempi confusi come i nostri e date le polarizzazioni che, anche in assenza di una più diffusa e informata riflessione sulla cultura di genere (è stata carente nel nostro paese una divulgazione argomentata e seria), tendono a prodursi nel confronto pubblico su questi temi tanto sensibili e talvolta avvertiti come inquietanti. Spesso tuttavia i compiti difficili sono anche ineludibili.

Simonetta Giovannini
Membro della Comunità del Cenacolo di Merano, che aderisce alla Rete dei Viandanti 

3 Commenti su “IL GENDER NELLA SOCIETÀ DEL NARCISISMO”

  1. Gentile Mariateresa Martini, lagnosa, e perché? Non mi pare di lagnarmi, mi limito a costatare alcuni dati di fatto e a interpretarne altri. Proprio perché la scuola ha il compito che lei indica (conoscere se stessi e gli altri) dovrebbe essere consapevole dei suoi presupposti e saperli argomentare, credo. Penso poi che siccome qui non siamo nel campo delle certezze ma delle interpretazioni e delle argomentazioni, posizioni differenziate sulla complessa e delicata questione dell’identità sessuale e di genere siano legittime e abbiano diritto al rispetto e al riconoscimento. Non necessariamente chi non la pensa come lei è rimasto fermo al Medioevo. Poi, che ci sia anche da parte di molti che disquisiscono in materia notevole ignoranza e arroganza, mi pare di averlo fatto capire. Come si sa poi l’ignoranza e l’arroganza non sono mai da una parte sola. Buona riflessione anche a lei.

  2. Grazie per questo areticolo chiaro e senza fanatismi o prese di posizioni preconcette. Non condivido molte delle affermazioni che si fanno sul “gender” oggi, sono “modoretamante” tradizionalista su questo tema, ma raramente ho trovato argomentazioni e discussione così pacate come le sue su questo articolo. Per questo, anche se non condivido al 100% quel che scrive volevo ringraziarla per avermi dato spunti di riflessione

  3. Sarà perché è tardi e mi scuso…ma la riflessione mi sembra troppo lunga e lagnosa. Il testo teatrale non l’ho letto, l’opera non l’ho vista, quindi non entro nel merito educativo della specifica offerta didattica.
    Ma da sempre nell’età di mezzo l’individuo cerca a sua identità e la scuola dovrebbe aiutare a conoscere e se stessi e gli altri.
    da Giona a Pinocchio, dal Piccolo Principe a Pippi Calzelunghe nessuno era catalogabile xy o xx.i libri restano bellissimi e profondi.
    E in natura dai cavallucci marini ai pinguini i ruoli non corrispondono al maschio cacciatore…anche in natura le variabili ormonali sono diverse per tutti gli essere viventi così per gli uomini.I contesti fanno il resto.
    Se qualcuno parte ancora dalla teoria che non esiste l’evoluzione , ma solo la Creazione in un sesto giorno prima dell’uomo poi della donna, e se pensa che il sole ruoti intorno alla terra piatta, non abbiamo strumenti per fargli cambiare idea se non rimandandolo a scuola!!
    buona riflessione mt

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