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SACERDOZIO COMUNE E SACERDOZIO MINISTERIALE. UNA FRATTURA

Gruppo “Chiesa oggi” (Parma)

Nell’opinione pubblica si riscontra una triplice sovrapposizione: della Gerarchia alla Chiesa; della Gerarchia vaticana a quella Italiana; dei vertici ecclesiastici (Segreteria di Stato e Presidenza della CEI) alla Gerarchia vaticana e a quella italiana. Ne deriva che quando parlano, decidono e operano i vertici della Gerarchia, per l’opinione pubblica (e in fondo per gli stessi vertici) è la Chiesa in quanto tale che parla, decide e opera. Questo fenomeno è tuttora largamente vigente anche se recentemente si è iniziato a fare le necessarie distinzioni.

La Chiesa-Popolo di Dio
Ma la Chiesa non coincide né con la Gerarchia nel suo complesso, né con quella vaticana o italiana, né con i loro vertici, anche se in essa trovano la loro collocazione e legittimazione. La Chiesa, come proclamato nellaLumen Gentium, è la Comunità dei credenti in Cristo cui è affidata “la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio.” (n.5). Essa è Popolo di Dio in cui si esplica “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico che, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (n.10).

E’ perciò lecito e doveroso chiedersi se a quanto è espresso nella Lumen Gentium corrisponda, specificatamente in Italia, la realtà operativa di tutti i giorni, a partire dalla visibilità del “Popolo di Dio”. Quello che appare è una realtà dominata da una netta frattura tra “sacerdozio ministeriale” e “sacerdozio comune”.

Gli sconfinamenti del sacerdozio ministeriale
La frattura tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune evidenzia anzitutto il dato preoccupante che la Gerarchia impone a tutti di essere ad essa soggetti non solo nelle questioni che attengono alla Fede, ma anche, e sempre più spesso negli ultimi decenni, nelle questioni che riguardano la vita politica e civile italiana. In particolare è diventata dominante in essa la convinzione che, per salvaguardare l’esistenza stessa della Chiesa, occorra agire “politicamente” ponendosi come un potere che si confronta con i poteri della terra e considerando subordinato e talvolta  un elemento di disturbo il ruolo che i credenti dovrebbero svolgere nella realtà civile e politica.

E’ significativo, in proposito, l’atteggiamento assunto verso i problemi posti dal mondo (ingiustizie, povertà, violenze, corruzione, emergenze etiche e sociali, ecc.). La Gerarchia, anziché confrontarsi con tali problemi a tutto campo, confidando nella forza dell’Evangelo e nell’azione dello Spirito, si lascia prendere dalla paura, teme che le sia progressivamente sottratto il terreno su cui abitualmente si muove e privilegia la logica dello scambio con i poteri di turno: benefici materiali e condizionamento ideologico dell’attività legislativa contro legittimazione politica e, se necessario, “sopimento” del giudizio morale. Pronta comunque a cambiare interlocutore se il primo va in crisi di potere. E questo mentre con coloro che non detengono potere mostra una massima durezza di giudizio, come nei confronti di “deviazioni” dottrinali o di sperimentazioni pastorali “di frontiera”, o come in situazioni di estrema difficoltà umana, quali quelle, ad esempio, dei casi Englaro e Welby. Ci si domanda se l’autonomia della politica sia un principio acquisito dalla Gerarchia oppure teoricamente proclamato ma praticamente avversato.

Anche qui dobbiamo ricorrere ad una rilettura dei documenti conciliari. La Gaudium et Spes al n. 76 enuncia un indirizzo che non può essere equivocato quando afferma che “la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti ed autonome l’una dall’altra nel proprio campo” e che “la Chiesa stessa […]non pone la sua speranza nei privilegi ad essa offerti dall’autorità civile. Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni.”. La questione ad esempio dell’ICI (ora dell’IMU) è una cartina di tornasole di grande evidenza.

Quello che non sembrano comprendere molti esponenti della Gerarchia è che quando ci si pone nell’agone politico, sostenendo o avversando una parte, ci si pone sullo stesso piano delle parti politiche assoggettandosi, quindi, alla logica della dialettica politica con il conseguente sacrificio della missione della Chiesa.

Rinunce, auto-referenzialità e incertezze
La frattura tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune evidenzia un dato altrettanto preoccupante: il venir meno, almeno in parte, dei laici all’esercizio della corresponsabilità nella Chiesa e nella comunità civile e politica.  Molti laici, ad esempio,vedendosi sottratto dalla Gerarchia il campo di intervento civile e politico che loro compete, anziché assumere responsabilmente una maggiore determinazione in tale ambito, assumono  atteggiamenti rinunciatari. Quando non prevalgono indifferenza e chiusura in una fede individualistica, si accontentano spesso di un pur lodevolissimo lavoro di base, quale si esplica ad esempio nei vari settori del volontariato o in aggregazioni ecclesiali per così dire “di nicchia”.

D’altra parte movimenti e gruppi, sia che si sforzino di mantenere margini di dialogo con la “grande Chiesa”, sia che si isolino contestandola con durezza, quasi sempre rischiano di assumere un atteggiamento autoreferenziale (del tipo: la vera Chiesa siamo noi!) che riproduce, a un altro livello, quella stessa autoreferenzialità della Gerarchia che essi criticano. E possono cadere, così, nella tentazione di dar vita a una Chiesa alternativa, condannandosi all’isolamento dalla comunione e all’inefficacia ecclesiale.

In questo contesto la posizione di tanti preti impegnati in prima linea si fa sempre più difficile: da un lato hanno l’obbligo di conformarsi alle direttive dei vertici ecclesiastici, anche quando queste si attardino in rigide casistiche pastorali (come nel caso dei divorziati, degli omosessuali o delle coppie di fatto); dall’altro sono pressati dai problemi e dalle difficoltà di molti fedeli . “Che cosa devo fare? – si chiedono – devo attenermi alle casistiche prescritte o devo piuttosto seguire la misericordia praticata, insegnata e richiesta da Gesù Cristo?”.

La via della sinodalità e della franchezza
Il rischio sembra consistere in uno slittamento non immediatamente percepibile verso l’inefficacia del sacerdozio comune, un’inefficacia che ha tra i suoi esiti visibili anche il crollo delle vocazioni al sacerdozio ministeriale. Quale via d’uscita, per ricostruire una Chiesa che coincida con il Popolo di Dio, se non riprendere le grandi intuizioni profetiche del Vaticano? Non occorre dunque inasprire la critica e la contestazione – siano esse rivolte contro l’autoritarismo della Gerarchia o contro le inadempienze del laicato – ma praticare il coraggio della franchezza e la pazienza della sinodalità, in modo che tutti, Vescovi laici preti religiosi, si aiutino e stimolino a vicenda nel riscoprire e rendere operanti le funzioni che competono a ciascuno, anche al di là delle anacronistiche distinzioni di genere. E superare in tale prospettiva, con il necessario cammino preparatorio, i vincoli dottrinali che precludono alle donne l’accesso al sacerdozio ministeriale e ai preti l’accesso al matrimonio.

Quello che occorre, in definitiva, è rifarsi al Vangelo e perciò riferirsi alla persona, alle parole, ai gesti del Signore nostro Gesù Cristo e in particolare al suo invito all’amore: amare il prossimo come noi stessi, amare i nemici, amarci gli uni gli altri come Egli ci ha amati. Solo questo amore può trasformare la Chiesa, aprirla al mondo, lasciare che il mondo la interroghi, che la Parola di Dio la inquieti, che al giudizio e al potere subentri la misericordia, che all’inerzia subentrino l’attenzione e la dedizione all’altro.

Gruppo “Chiesa oggi” (Parma)
Aderente alla Rete dei Viandanti

4 Commenti su “SACERDOZIO COMUNE E SACERDOZIO MINISTERIALE. UNA FRATTURA”

  1. Giuste le osservazioni di Bruno. Essenzialmente però mi sembra opportuno un approfondimento sia storico-patristico che esegetico. Non so se nel Kittel: Nuovo lessico del N.T. ci sia questa ricerca, perché purtroppo non lo possiedo ancora, pur avendo gli altri volumi. Invito alla ricerca per chi ce l’ha.

  2. Se uno/a fa lo sforzo di leggere almeno il testo di Hans Kung CRISTIANESIMO , acquisisce una conoscenza adeguata alla comprensione dello sviluppo che nel cristianesimo anzi nei cristianesimi ebbe la dialettica tra sacerdozio comune del popolo di Dio ( che è nel suo insieme una diaconia ) e ministeri funzionali al cammino di testimonianza cui è chiamato il popolo di Dio. Non credo che l’ affermazione della differenza essenziale, addirittura ontologica secondo alcuni testi, possa fondarsi su testi biblici e tradizioni più prossime alle pratiche delle prime comunità cristiane.

  3. Il vostro testo è molto ricco e ben costruito. Giusto anche il problema posto da Peyretti, ma per approfondire il problema non credo sia utile ripartire da Pio XII, da comprendere storicamente, ma nel quale l’autoreferenzialità della Chiesa gerarchica è particolarmente evidente, come la punta di un iceberg, il culmine di una lunga tradizione. E’ dal Concilio e in primo luogo dal Vangelo che bisogna ripartire per ripensare, con una prospettiva storica, anche il modo di impostare questo problema.

  4. Queste parole (che sono citazione di Pio XII) della Lumen Gentium mi hanno sempre fatto problema: “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico che, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (n.10). Ora, se differiscono per essenza e non solo per grado (intensità? pienezza?) allora sono due sacerdozi, non uno. E dunque non solo due modi di partecipare all’unico sacerdozio di Cristo, ma due differenti essenze. Una è quella di Cristo e l’altra non lo è? Chiesi spiegazione a p. Pellegrino quando era arcivescovo di Torino (dal 65 al 77). Mi disse: “Bisognerebbe chiedere speigazione a chi stese il testo”. A me sembra un compromesso (citando Pio XII) per attenuare l’effermazione dell’unico sacerdozio, di Cristo e di ogni suo fedele che vi partecipa. Le differenze sono solo funzioni, ministeri, utili alla comunità, che non imprimono un “carattere” essenzialmente diverso. Possiamo chiarici su questo punto, non da poco? Grazie dell’attenzione, Enrico Peyretti

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