DALLA FEDE ALLA DOTTRINA
Dino Calderone
Già nel medioevo si utilizzava questo principio: «ciò che riguarda tutti deve essere trattato e approvato da tutti». Più recentemente, con una lettera aperta a Benedetto XVI, un gruppo cattolico francese propose un «Anno dei battezzati»: «un tempo di meditazione della Chiesa intera sulla vocazione propria dei battezzati». Non solo i laici, quindi, ma anche il clero: tutti insieme da battezzati.
L’urgenza di un libero confronto
Un confronto su temi che riguardano la vita della Chiesa è urgente, ma in sedi che garantiscano libertà di espressione, senza gerarchie, seduti tutti intorno ad un tavolo, senza cattedre. Servirebbe molto, anche per favorire la crescita di un’opinione pubblica nella Chiesa, tanto auspicata già negli anni 50 da Pio XII. In un famoso testo di Rosmini, «Le cinque piaghe della santa Chiesa», si legge: «“Sta egli bene, che un uomo senza giurisdizione componga un trattato sui mali della santa Chiesa? O non ha egli forse alcuna cosa di temerario a pur occuparne il pensiero, non che a scriverne, quando ogni sollecitudine della Chiesa di Dio appartiene di diritto a’ Pastori della medesima? E il rilevarne le piaghe non è forse un mancare di rispetto agli stessi Pastori, quasichè essi o non conoscessero tali piaghe, o non ponessero loro rimedio?” A questa questione io mi rispondevo, che il meditare sui mali della Chiesa, anche a un laico non potea essere riprovevole, ove a ciò fare sia mosso dal vivo zelo del bene di essa, e della gloria di Dio; e parevami, esaminando me stesso, per quanto uomo si può assicurare di sè, che non d’altro fonte procedessero tutte le mie meditazioni. Rispondevano ancora, che se nulla v’avea di buono in esse meditazioni, non era cagion di celarlo; e se qualche cosa v’avea di non buono, ciò sarebbe stato rigettato da’ Pastori della Chiesa: che io non pronunciavo con intenzione di decidere cosa alcuna».
La fede non è un sistema chiuso
Se, quindi, anche un fedele laico può scrivere «un trattato sui mali della santa Chiesa», c’è comunque una condizione insuperabile da tenere presente: «io non pronunciavo con intenzione di decidere cosa alcuna».
Secondo Newman, poi, i laici non sono estranei da tenere in disparte neppure nelle materie concernenti la fede (la fede di Nicea venne salvata dalla fede popolare). Per poter partecipare alle materie concernenti la fede i laici non devono diventare teologi, ma lasciarsi guidare dal proprio istinto di cristiani battezzati.
Ovviamente, nota Newman, anche l’istintività laicale è esposta a rischi di errori e deviazioni. La coscienza del fedele laico, quindi, non si deve intendere come autoreferenzialità individuale, ma sempre in relazione con il sensus fidei del popolo. La fede non è un sistema chiuso, ma occorre comprendere quale rapporto c’è fra la verità e la sua formulazione.
Guitton scriveva di Newman: «non la stabilità della Chiesa lo aveva colpito, bensì la sua evoluzione, e sia pure su uno stesso asse: la sua identità, sì, ma vivente, i suoi sviluppi». Se è vero che la definizione della fede è affidata al magistero, lo sviluppo della fede è affidata a tutti i fedeli battezzati.
Lo sviluppo della fede
Come «giustificare la fede dell’uomo incolto»? Il ruolo della pietà popolare che ruolo può giocare? Le devozioni sono un fattore di corruzione per la fede? L’idea di sviluppo in Newman è fondamentale. La verità rivelata dentro il tempo assume forme diverse storicamente visibili e percepibili. Lo sviluppo non solo non rappresenta la perdita totale o parziale della verità incarnata, ma è l’unico modo per custodirla rinnovandola. La fede quindi non è una nozione chiusa dentro una teca sigillata una volta per tutte che solo i sacerdoti possono aprire, ma grazie al corpo vivente dei fedeli viene sempre più esplicitata.
Detto ciò la distinzione fra laici e clero non solo non scompare ma viene valorizzata: perché non sono i laici ad avere il compito di definire ogni questione che viene dibattuta, ma il carisma dell’autorità che alla fine può decidere. Il laicato non è formato solo dai laici più preparati sul piano intellettuale che formano una sorta di ceto che monopolizza i convegni ecclesiali.
Ma come possono stare insieme gerarchia e comunione? Perché la diversità di ministeri e carismi deve essere rappresentata gerarchicamente e non in rete orizzontale? La comunione fra un alto e un basso è una finzione ingannevole. È vero, i laici in quanto laici non governano la Chiesa, ma su alcune funzioni non specifiche del ministero ordinato perché non sperimentare la possibilità dell’elezione dei fedeli?
Lo sviluppo della dottrina
Occorre dire purtroppo che di queste preziose avvertenze rosminiane e newmaniane, nei circa due secoli che ci separano da esse, si è fatto scarso uso. Sembra impossibile uscire da una concezione clericale, gerarchica, piramidale della Chiesa Cattolica a favore di una comunionale che non elimina carismi e ministeri, ma li mette appunto in orizzontale ed in rete.
Le difficoltà a prendere la parola all’interno della Chiesa nascono soprattutto da qui. La prassi sinodale proposta in questi anni da papa Francesco è il modo migliore per ritrovare l’ecclesiologia di comunione proposta dal Concilio e superare così la dicotomia clero-laici (tutti discutono intorno ad un tavolo su un piano di parità perchè uniti dal battesimo). Esiste da sempre, sin dai tempi apostolici, uno sviluppo della dottrina cristiana.
La Chiesa ed i cristiani rispetto alle esigenze poste dal Vangelo sono sempre distanti dal raggiungimento di un’autentica pienezza. Sviluppo e riforma sono le uniche «marce» da usare per andare avanti e non uscire fuori del tutto dall’orbita dell’annuncio evangelico. Giovanni XXIII diceva: «non è il Vangelo che cambia siamo noi che lo capiamo meglio».
Uno sviluppo con variazioni
Ma si può immaginare uno sviluppo senza variazioni? L’idea che per essere autorevoli si debba sempre e solo ripetere il passato è inaccettabile. La fede, data una volta per sempre nel momento iniziale, solo dopo viene definita e precisata in proposizioni codificate.
La fede stimola la riflessione concettuale, ossia la teologia, che però solo se aiuta a custodire la fede va mantenuta, altrimenti deve essere lasciata cadere! Lo sviluppo non si deve intendere come lo sviluppo biologico e quindi come un succedersi di fasi prestabilite, ma neppure si può stabilire fino a che punto sarà possibile lo sviluppo della dottrina.
La tradizione non è mai stata statica come dimostra il rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. L’antichità presenta una serie evidente di novità, perché queste dovrebbero concludersi con i Concili dei primi secoli? Si tratta talvolta di forme imprevedibili, ma riconducibili ex post alla fede iniziale. Novità che non venivano percepite come strappi con la Tradizione perché lo sviluppo avviene secondo un’economia che mette in relazione la realtà divina, soprastorica, con quella umana, storica.
Un cammino per aggiustamenti progressivi
La storia della salvezza non è, come vorrebbero gli ideologi della Tradizione, un fiume lineare, pianeggiante, armonioso, ma una storia talvolta discontinua ed imprevedibile. La fede non è una dottrina, ma dalla fede nasce e si sviluppa una dottrina. Si parla infatti di dottrina della fede non di fede nella dottrina. Un’idea resta valida solo se si realizza dinamicamente e cioè se esprime aspetti che prima non erano stati percepiti o colti dal discernimento. Occorre sempre fare attenzione allo sviluppo: dalla fede vissuta alla dottrina, non solo per i primi secoli, ma per tutta la storia della Chiesa.
La dottrina grazie alla riflessione teologica traduce per quanto possibile il mistero della fede, ma la ragione resta sempre al di qua dell’oggetto, perché, in definitiva l’oggetto della fede è un Soggetto irriducibile. L’identità cristiana quindi non può essere mai statica, un fossile morto, ma in continua crescita, come un organismo vivente.
La fede è una realtà vissuta, prima che conosciuta, non semplicemente un assenso intellettuale ad una nozione. L’esperienza dei fedeli, anche dei più illetterati, può anticipare con la testimonianza le successive argomentazioni teologiche. I passaggi essenziali da tenere presenti sono quindi: esperienza di fede vissuta, ipotesti teologiche, magistero come conferma, respingimento o pronunciamento su queste. Ogni traduzione dottrinale non è mai totale, ma anticipazione di altre precisazioni e possibili definizioni.
Dino Calderone
Membro del gruppo “In cammino: per la riforma della Chiesa” (Messina), che aderisce alla Rete dei Viandanti
[Pubblicato il 21.11.2025]
[L’immagine è ripresa dal sito: wikipedia.org]
