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L’INNO ALLA VITA

Per l’uomo occidentale la morte è il “fiore nero” per dirla con Hegel. Ma anche nel nostro contesto sociale, nonostante la contemporaneità ci offra immagini di morte devastanti (dalla pandemia alla guerra in Ucraina fino ai terremoti e alle catastrofi), il pensiero della morte è rimosso. “Esorcizzato” con mille espedienti.

Infatti per Heidegger una delle debolezze, o inautenticità, della società moderna, sta proprio nel vivere la morte come un “si muore” e non come un “io muoio”:

“Un’interpretazione pubblica dell’esserci dice: “Si muore”; ma poiché si allude sempre a ognuno degli Altri e a noi nella forma dei Si anonimo, si sottintende: di volta in volta non sono io. Infatti il Si è il nessuno. […] Il morire, che è mio in modo assolutamente insostituibile, è confuso con un fatto di comune accadimento che capita al Si. Questo tipico discorso parla della morte come di un “caso” che ha luogo continuamente. Esso fa passare la morte come qualcosa che è sempre già “accaduto”, coprendone il carattere di possibilità e quindi le caratteristiche di incondizionatezza e di insuperabilità”.

Anche questo è un nascondimento della morte.

Sia il “pensiero forte” (quello della modernità), sia il “pensiero debole” (quello della post modernità) sono fragili nei confronti della morte. Eppure con essa bisogna fare i conti fino in fondo, senza riserva alcuna.

Scrive bene monsignor Bruno Forte, teologo e vescovo, la morte è una ferita, un pungolo, che si insinua scomoda e inquietante in ogni attimo.

“Accettare la sfida della morte vuol dire iniziare a pensare: e proprio perché nasce dalla lotta con la morte il pensiero è voce di quell’agonia che è la vita” (Bruno Forte, Vita e morte. Teologia di un conflitto. In La Sapienza del cuore, Einaudi, 2013).

Così inquadrato il libro di Enzo Bianchi, Cosa c’è di là. Inno alla vita, non si colloca nel solco tradizionale della trattazione dei “novissimi” (così viene chiamato dalla teologia tradizionale il “parlare “delle cose ultime). Spesso gli antichi predicatori destavano, nel parlare delle cose ultime (morte, giudizio, inferno e paradiso) non solo il “timore di Dio” ma anche angosce e paure. Il risultato di questo approccio è stato un esilio dalla predicazione della Chiesa salvo in alcuni momenti topici della vita di un cristiano (vecchiaia, malattia e morte).

“Ecco la ragione di questo libro: non rimuovere ma vivere ciò che fa parte della vita e cercare di intravedere restando saldi ciò che è invisibile, ciò che c’è nell’aldilà, ascoltando le parole cristiane. Il cristiano nel richiamo alla fede pone la morte come apertura al segreto dell’aldilà. In questa segretezza ognuno si spinge secondo il proprio credere”.

Sapendo che si può solo “balbettare” dell’aldilà, il libro di Enzo Bianchi si pone come un inno alla vita.

Il libro è coraggioso, una meditazione “poetica”, frutto consolidato e maturo di una “fede che ama la terra” direbbe Karl Rahner.

Del resto la vita di Enzo Bianchi, monaco e fondatore della Comunità di Bose, è quella di un cristiano che vive la radicalità evangelica nella compagnia degli uomini.

In questa compagnia si è fatto fratello di credenti e non credenti.

L’umanizzazione del cristianesimo di Enzo Bianchi non è un cedimento al mondano, anzi è il riconoscere che ciò che accomuna credenti e non credenti è la comune umanità che ci porta ad “alleggerire la terra” dai pesi della morte presente nella città dell’uomo.

E già questo è un seme di eternità sulla terra: “su questa terra che tanto amo ho sempre cercato l’eternità”, afferma Enzo Bianchi.

Perché “Noi non possiamo pensare la vita senza pensare alla morte, così come non possiamo pensare alla vita senza pensare alla morte”.
Fare memoria della morte non è vivere con l’angoscia di essere in una “valle di lacrime”:

“Avere davanti a sé chiaro il limite dei giorni porta a viverli con grande consapevolezza, a gustare la vita con pienezza; vivere cioè il tempo che ci è dato il più possibile coinvolti nelle relazioni, negli affetti, nell’amore e nell’amicizia; significa aggiungere vita ai giorni, soprattutto quando non è possibile aggiungere giorni alla vita. Questa memoria mortis non deprime, ma esalta la vita: si vive davvero una volta sola!”

Quello di Bianchi non è una sorta di epicureismo “cristiano”, ma è l’opposto: il tempo “penultimo” (per chi ha fede) che ci è dato da abitare implica che questa realtà va custodita e redenta. E’ questa l’intensità dei giorni dell’uomo.

Il libro ci offre molti spunti poi sul dolore, sulla malattia, sui fantasmi dell’uomo che invecchia. Nelle parole di Bianchi non c’è nessun cedimento alla “mistica” del dolore.

Scrive Romano Guardini, nel suo libro “Le età della vita”, “l’uomo che invecchia si avvicina non alla fine ma all’eterno”. E così le domande e le risposte presenti nel libro sulla vita eterna, sul giudizio sull’inferno e sul paradiso si fanno sempre più audaci, ma riconosce, alla fine del suo percorso, Bianchi: “dire qualche parola sulla vita eterna è temerario, si tratterebbe anche per me di spingermi ‘al di là delle fiammanti mura del mondo’ come dice Lucrezio”.

“Come uomo – scrive Bianchi – dunque chino il capo e faccio silenzio, o meglio resto muto, ma come cristiano alzo il capo e credo che la vita eterna sia Gesù Cristo!”

Quel “Gesù che ha evangelizzato Dio, cioè che l’ha reso «buona notizia», per me è la vita eterna, è la via per la vita eterna, è la verità-fedeltà di questa promessa. Ma questa vita per sempre la sento già innestata in me qui e ora, nel mio mondo, nel mio vivere su questa terra con uomini e donne che amo e che mi amano”.
Allora, alla fine di queste righe, si può dire che “è l’amore che crea il senso, che permette di sostenere l’enigma della morte e che rende il vivere una vita!”.

Pierluigi Mele
redattore di RAI NEWS

Enzo Bianchi, Cosa c’è di là. Inno alla vita, Ed. Il Mulino, Bologna 2022, pagg. 152

Questa recensione è stata pubblicata il 9.02.23 nel sito:
https://www.rainews.it/articoli/2023/02/cosa-c-di-l-linno-alla-vita-di-enzo-bianchi-4efaf1c7-2dbb-4cb2-9449-fc95e07841da.html

 

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