La sostituzione vicaria
Il filo conduttore della riflessione di Bonhoeffer è la concezione di Cristo quale unico e imprescindibile «mediatore»: «Da Cristo in poi l’uomo non ha più alcun rapporto immediato, né con Dio né con il mondo; egli vuol essere il mediatore.[…] Idoli e mondo vogliono strappare a Cristo ciò che egli ha tolto loro, cioè di essere essi soli in rapporto di immediatezza con l’uomo» (Sequela [= S], pp. 86/87). Su questa base cristologica si impernia il concetto di «sostituzione vicaria» [Stellvertretung], presente in tutta la sua produzione. Il cristianesimo apre ad ogni uomo la possibilità di porsi in nome di Cristo al posto del fratello per portare non solo i pesi ai quali questo non è in grado di reggere, ma soprattutto per renderlo a sua volta responsabile nei confronti di altri fratelli, non ancora in grado di essere uomini adulti pienamente responsabili (sostituzione vicaria come educazione alla responsabilità). Cristo convoca tutti gli uomini di tutti i tempi «sotto la sua croce» per poter donarsi al loro posto, e così incorporarli a sé quale vincitore del peccato e salvatore del peccatore: «L’amore per il nemico porta il discepolo sulla via della croce e alla comunione con il crocifisso. […] Di fronte al cammino della croce di Gesù Cristo anche i discepoli riconoscono che essi stessi appartenevano al numero dei nemici di Gesù, di quelli che sono stati vinti dal suo amore» (S, p.129). «Lo “straordinario” [perissòn, cfr. Mt 5, 47] del cristianesimo è la croce, che consente al cristiano di essere al-di-là-del-mondo e in tal modo gli dà la vittoria sul mondo» (S, p. 143). Per l’uomo sarebbe impossibile oltrepassare l’orizzonte dell’immanenza; può farlo se Cristo, con la sua croce, prende il posto dell’uomo che si pone alla sua sequela: «Paolo riesce ad esprimere il miracolo dell’incarnazione di Cristo proponendo una serie praticamente inesauribile di rapporti: Cristo è “per noi” non solo nella parola e nell’intenzione, ma con la sua vita corporale. […] Egli si è messo al nostro posto […]. Può farlo perché porta la nostra carne (2 Cor 5, 21; Gal 3, 13; 1, 4; Tt 2, 14; 1 Ts 5, 10 ecc.)» (S, p. 221).
Gesù chiama a seguirlo i Dodici, esercita su di loro piena autorità, ma dando loro anche gli stessi poteri che egli ha ricevuto dal Padre (Mt 10, 1-4): «In questo incarico gli apostoli sono divenuti uguali a Cristo. Essi compiono le opere di Cristo. […] L’opera di Cristo, che devono svolgere, obbliga i messaggeri ad aderire totalmente alla volontà di Gesù. Felici loro, che hanno questo comando per lo svolgimento del loro ufficio, che li rende liberi dalla loro discrezione e dal proprio calcolo» (S, pp. 188-189). Il loro lavoro consiste anzitutto nel chiamare i pochi che, data l’urgenza, hanno potuto ascoltare la loro viva voce, e nel delegarli a estendere la Buona Novella a tutti quelli che non hanno potuto ascoltarli direttamente: «Un piccolo gruppo sta vicariamente al posto dell’intera comunità (cfr. Mt 10, 11-15)» (S, p. 193).
Il lavoro apostolico non può prescindere dalla sostituzione vicaria. Questa trova in Bonhoeffer una singolare applicazione anche sul piano ermeneutico. Non si può prendere il posto di un altro se si prende la Parola a proprio piacere, ad esempio scegliendo Paolo oppure i Sinottici; né si può fare di un asserto isolato dei Vangeli una verità «ontologica», vera di per sé. Tutta la comunità deve sentirsi impegnata al fine di evitare la pigrizia nell’ascolto della Parola e la sua conseguente strumentalizzazione. Tutta la Scrittura dovrà essere tenuta presente tenendo fermo da una parte che «il linguaggio di Dio è sufficientemente chiaro» (S, p. 194), e dall’altra «che a partire dalla parola i messaggeri raggiungeranno anche la giusta conoscenza dell’uomo» (S, p. 197).
Dal dio della «religione» al Dio che è «essere per gli altri»
Nel “Progetto per uno studio” (Resistenza e resa [=RR], pp. 461-64) Bonhoeffer traccia in forma sintetica le linee di fondo del pensiero elaborato nelle sue lettere dal carcere: il divenire adulto del mondo, la non-religiosità dell’uomo divenuto adulto («Dio come ipotesi di lavoro, come tappabuchi per le nostre difficoltà è diventato superfluo»), l’esserci-per-altri di Gesù, del credente, della Chiesa (la vera trascendenza). Sono tutti concetti connessi col principio della sostituzione vicaria. Il Dio cristiano non è ricurvo su di sé, chiuso nella sua assolutezza, – ma è aperto all’altro da sé, nell’atto ininterrotto di donarsi e di accompagnarsi all’uomo. La sua trascendenza non sta nell’essere al di là del mondo, ma nel suo esserci-per-altri. Questa formula, centrale in Bonhoeffer, significa che Dio è qui, è nel mondo, al centro dell’esistenza (esser-ci vuol dire questo) non per sé, non per curarsi di se stesso, non per rivendicare dei diritti, ma solo per prendersi cura dell’uomo. E’ un Dio che salva l’uomo non con l’onnipotenza, esibendo la sua forza e rimanendo intatto nella sua assolutezza, – ma con la debolezza e la sofferenza della Croce, facendosi egli steso peccato, addossandosi le colpe degli uomini e intaccando così la sua assolutezza. Poiché è qui solo per gli altri, si carica la Croce sulle spalle e con essa si carica sulle spalle gli uomini, per salvarli. Ma se il Dio cristiano è questo, se è così, cosa deve essere l’uomo, come può porsi il credente? Non più, come in passato, con un atteggiamento religioso. Con l’atteggiamento, cioè, di chi si serve di Dio; di chi vorrebbe farLo intervenire per liberare l’uomo dall’ignoranza, dal dolore, dalla colpa, dalla morte; di chi si rivolge a Lui per essere esonerato dalla fatica della ricerca, della responsabilità e del coraggio. Ma così fanno tutte le religioni. Il credente è chiamato ad altro, è chiamato a praticare un cristianesimo non religioso, che vede in Dio colui che non toglie ma stimola la ricerca e l’esercizio della responsabilità e del coraggio. Che non si sostituisce all’uomo, ma lo aiuta ad essere interamente uomo, offrendogli in Cristo la forma di esistenza da far propria. E come Dio in Cristo è esserci-per-altri, così il credente deve esserci-per-altri, cominciando con l’ esserci-per-Dio, con l’assumere e condividere la sofferenza divina. Si diventa cristiani, scrive Bonhoeffer in una lettera dal carcere, quando «non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo» e «si veglia con Cristo nel Getsemani». In ciò consiste il cristianesimo non religioso. Questo vale per il credente come per la Chiesa. In entrambi i casi nessuna chiusura in se stessi, nessun atteggiamento di difesa, ma solo apertura e dedizione.
Grazia a caro prezzo
La croce di Cristo indica il luogo fisico in cui accade la sostituzione vicaria: «Sotto la croce c’erano tutti, nemici e credenti, dubbiosi e paurosi, schernitori e sconfitti, e per tutti, per i loro peccati, si è levata la preghiera di perdono di Gesù in quel momento. L’amore misericordioso di Dio vive in mezzo ai suoi nemici» (S, p. 22). Ma questo amore può venir accolto solo se con esso viene incorporata la stessa croce, se cioè l’amore di Cristo è quello «straordinario» amore che perviene ad amare il nemico in quanto nemico proprio. Ogni altro amore è ciò di cui sono «capaci anche i pagani». Cristo si mette al posto di tutti i peccatori, ma ciò è possibile solo a caro prezzo: «È a caro prezzo, perché costa all’uomo il prezzo della vita, è grazia, perché proprio in tal modo gli dona la vita; è a caro prezzo, perché condanna il peccato, è grazia, perché giustifica il peccatore. La grazia è a caro prezzo soprattutto perché è costata cara a Dio, perché gli è costata la vita di suo Figlio» (S, p. 29). Ma proprio per questo essa non è a disposizione di tutti quei cosiddetti cristiani che strumentalizzano il sacrificio del Figlio di Dio: «Grazia a buon mercato è predicazione della remissione senza penitenza, è battesimo senza disciplina comunitaria, è Cena senza confessione dei peccati, è assoluzione senza confessione personale. La grazia a buon mercato è grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato» (S, p. 28).
Sacramenti comunitari
La sostituzione vicaria è responsabilizzante su ogni piano. Gesù si è fatto uomo in tutto, come attesta la sua imprescindibile corporeità: «Poiché c’è il corpo di Cristo, per questa unica ragione ci sono i sacramenti. Non è la parola della predicazione a produrre la nostra comunione con il corpo di Gesù Cristo; deve aggiungersi il sacramento. Il battesimo è inserzione nell’unità del corpo di Cristo come sue membra, la Cena è il mantenimento della comunione (koinonìa) con questo corpo» (S, p. 220).
Proprio in vista della Cena eucaristica grande importanza deve essere data al «sacramento» della confessione. Essa deve avvenire come dichiarazione e pentimento dei propri peccati davanti a un fratello che si riconosce ugualmente peccatore. Non ci si può confessare solo mentalmente davanti a Dio, giacché si resterebbe fatalmente chiusi in sé stessi; la barriera dell’egoismo e della grazia a buon mercato può essere rotta solo davanti a un altro appartenente alla comunità in cui si incarna il corpo sofferente di Cristo: «A chi dobbiamo confessare i nostri peccati? Ogni fratello cristiano, secondo la promessa di Gesù, può accogliere la confessione dell’altro. Ma mi capirà? […] Il più esperto conoscitore dell’umanità sa infinitamente meno circa il cuore umano di quanto non sappia il più semplice cristiano nel suo vivere sotto la croce» (S, pp. 89-90).
Per un certo periodo, quello di Finkenwalde, pare che Bonhoeffer abbia desiderato per sé il celibato come dedizione completa a quel corpo di Cristo costituito allora dalla comunità che dirigeva. Analogamente egli considerò il matrimonio cristiano come fondato nel corpo di Cristo, e per questo voluto da Gesù come indissolubile: «Egli santifica il matrimonio secondo la legge nel dichiararlo indissolubile […]. In tal modo chi è nella sequela dovrà mantenere anche nel matrimonio quel vincolo esclusivo che lo unisce a Cristo […]. Il fatto che in tal modo esso sia qualcosa di diverso dal matrimonio civile non si risolve nel disprezzo del matrimonio, bensì proprio nella sua santificazione» (S, p. 124). Ciò accade proprio perché «il cristiano con il suo corpo rende servizio esclusivamente all’edificazione del corpo di Cristo, la comunità. Agisce in questo modo anche nel matrimonio, facendo così di sé stesso una parte del corpo di Cristo» (S, p. 266). In occasione del matrimonio della sorella Renate con l’amico e discepolo Eberhard Bethge, Bonhoeffer inviò dal carcere, nel maggio 1943, un sermone di nozze in cui il matrimonio cristiano viene equiparato a un «ministero», nel senso che Dio stesso lo sottrae a tutto ciò che vi può essere di individualistico nell’amore degli sposi: «L’amore viene da voi, mentre il matrimonio viene dall’alto, da Dio. […] Non è il vostro amore a sostenere il matrimonio, ma d’ora innanzi è il matrimonio che sostiene il vostro amore» (RR, p. 103). La sostituzione vicaria opera nel matrimonio in modo liberante anche quando essa assume i tratti del proibire l’adulterio: «Il matrimonio salvaguardato e liberamente accettato, cioè il lasciarsi dietro le spalle il divieto dell’adulterio, è piuttosto la condizione dell’assolvimento del compito divino del matrimonio. Il comandamento divino è divenuto qui la permissione di vivere liberi e sicuri nel matrimonio. Il comandamento di Dio è la permissione di vivere come uomini davanti a lui» (Etica, [= E], p. 338).
Chiesa come forma di Cristo nel mondo
Sotto la sua croce Gesù, come vicario del mondo, ha aperto lo spazio in cui questo ha cominciato a liberarsi dall’idolatria, e dunque a prendere atto della sua stessa realtà di mondo. La chiesa è apertura spaziosa al mondo: «Lo spazio della chiesa non esiste per contendere al mondo un pezzo del suo ambito, ma per testimoniare al mondo che esso rimane mondo, cioè il mondo amato e riconciliato da Dio. […] Essa può difendere il proprio spazio solo lottando non per esso, ma per la salvezza del mondo» (E, pp. 42-43). Ai suoi membri è dato di assumere funzione vicaria nei confronti di tutti gli uomini e così di estendere in prospettiva al mondo tutto la forma di Cristo: «Nel caso della chiesa non si tratta di religione, ma della forma di Cristo e del suo prender forma in un gruppo di uomini» (E, p. 73). Si tratta di un gruppo che la forma di Cristo potenzia dinamicamente in direzione ecumenica: «Esiste una sola chiesa, e cioè la chiesa della fede governata soltanto dalla parola di Gesù Cristo. Essa è la vera chiesa cattolica che non è mai scomparsa e che è ancora nascostamente presente anche nella chiesa di Roma. Essa è il corpo di Cristo – corpus Christi, è la vera unità dell’Occidente» (E, p. 89).
Il realismo cristologico dell’etica cristiana e il ruolo dei laici
Per Bonhoeffer nessuna norma è come tale deducibile dalla forma che Cristo, tramite la sua chiesa, dà al mondo. Certo c’è bisogno di norme, ma queste non possono essere oggettivate come tali, bensì tratte dal rapporto fra ciò che per l’esistenza cristiana è «ultimo», ossia il rapporto a Cristo che dà «conformazione» [Gestaltung] al mondo, e ciò che invece è e deve restare «penultimo», e che proprio così viene sottratto ad ogni idolatria, acquisendo con ciò stesso tutta la realtà che gli spetta, anche in prospettiva escatologica. Ad esempio dare da mangiare all’affamato è qualcosa di penultimo, ma «procurare il pane all’affamato significa preparare la via alla venuta della grazia. […]. Per colui che lo fa per amore dell’ultimo, questo penultimo sta in relazione con l’ultimo. Esso è qualcosa di pre-ultimo [ein Vor-Letztes]» (E, p. 136). In Cristo non vi è più contrasto fra la legge e l’uomo perché egli consente all’uomo di interpretare la legge dal punto di vista della vita, nell’assoluta e irripetibile concretezza di ogni singola situazione umana. Cristo non è l’umanità in generale, ma “il” reale, colui che smaschera e vince ogni astrazione: «La realtà è in primo e ultimo luogo non un qualcosa di neutro, ma una persona reale, cioè il Dio divenuto uomo. Tutto il fattuale ha nel reale, il cui nome è Gesù Cristo, il suo ultimo fondamento e il suo ultimo superamento, ha in lui la sua ultima giustificazione e la sua ultima confutazione» (E, p. 228). Ciò che è di per sé, astrattamente considerato, qualcosa di «penultimo» è chiamato, se posto in relazione con l’ultimo, ad assumere ruoli decisivi sia sul piano critico sia su quello profetico, proprio perché sapersi penultimo presuppone il rapporto con l’Ultimo nel mantenimento dell’irriducibile trascendenza di Dio. I quattro «mandati» della vita cristiana (un luogo tipico della teologia morale luterana, ma non solo): lavoro, famiglia, autorità, chiesa, possono così diventare compiti di reale responsabilità nel mondo solo nella prospettiva critica e profetica che viene ad essi conferita dalla loro «conformazione» al corpo di Cristo, che è la comunità raccolta sotto la croce di Cristo.
Il Dio cristiano viene a collocarsi al “centro della vita”, là dove la “sostituzione vicaria” chiama tutti ugualmente in causa: «Dio non è un tappabuchi; Dio non deve essere riconosciuto solamente ai limiti delle nostre possibilità, ma al centro della vita; Dio vuol essere riconosciuto nella vita, e non solamente nel morire; nella salute e nella forza, e non solamente nella sofferenza; nell’agire e non solamente nel peccato. La ragione di tutto questo sta nella rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Egli è il centro della vita, e non è affatto “venuto apposta” per rispondere a questioni irrisolte» (RR, pp. 382-383).
Riconoscere Dio al centro della vita vuol dire non più ricorrere a idoli per riuscire ad affrontarne i problemi. Ma proprio l’autonomia quale valore della modernità, raggiunta dopo millenni nel campo del sapere e dell’agire (un contributo che Bonhoeffer apprezza e in cui anzi vede un frutto dello stesso cristianesimo) potrebbe indurre l’uomo di oggi a divinizzare se stesso. Viene in aiuto la croce di Cristo: «Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – “etsi deus non daretur”. E appunto questo riconosciamo – davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventare adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona (Mc 15, 34)! Il Dio che ci fa vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio è il Dio davanti al quale permanentemente stiamo. Davanti e con Dio viviamo senza Dio. Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8, 17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!» (RR, p. 440). Lo «stare davanti a Dio» è l’unico modo di aver a che fare con Dio senza fare di lui, o di sé stessi, un idolo.
Uomo adulto, uomo nuovo, bambino escatologico
In una poesia che gli era molta cara, “Cristiani e pagani “, Bonhoeffer scrive: «I cristiani stanno vicino a Dio nella sua sofferenza». Anche i cristiani, non diversamente dai pagani, ricorrono a Dio nel bisogno, ma accade ai cristiani di incontrare un Dio che pretende da loro ciò che nessun Dio pagano ha mai richiesto ai propri adoratori: di stargli vicino come Dio nonostante lo vedano «consunto da peccati, debolezza e morte». Il Dio cristiano ha bisogno di un uomo talmente maggiorenne da risultare in grado addirittura di porgere effettivamente aiuto al Dio che muore in croce.
Un tale Dio pretende molto dall’uomo perché lo ama molto: non vuole che egli resti un minorenne, sotto tutela, ma che senta invece subito il dovere di essere adulto, nella pienezza delle proprie forze, capace di aiutare Dio in croce. Questo è il senso che Bonhoeffer, già a partire da Atto e essere, dà al «diventare come bambini» indicato da Gesù (cfr. Mt 18, 3). Il Dio «tappabuchi» è un prodotto dell’ipocrisia e della disonestà intellettuale; cristiano è il bambino escatologico che la comunità dei cristiani si propone di essere quando chiede il battesimo già per i bambini: «Il bambino è prossimo agli éschata. Anche questo è un fatto che solo la fede che supera sé stessa davanti alla rivelazione può pensare. Essa può tener fermo il battesimo intendendolo come l’incrollabile parola di Dio, la fondazione escatologica della propria vita» (Atto e essere, Queriniana, Brescia 1993, pp. 147-148). Non c’è trascendenza e intimità più grande di quella del Dio in croce che si mette dalla parte dell’uomo sino a renderlo talmente adulto da consentirgli di «stare a lui vicino nella sua sofferenza» (RR, p. 427), e talmente bambino da sentirsi in lui un “ri-nato”.