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FOGLI SPARSI SULLA SCRIVANIA
DEL FUTURO VESCOVO DI ROMA

Franco Ferrari

Uno degli esiti immediati ottenuti dal sorprendente gesto della rinuncia “al ministero di Vescovo di Roma, Successore di san Pietro” compiuto da Benedetto XVI l’11 febbraio scorso, si può ritenere sia stato quello di ridare libertà di parola sulle gravi questioni che la Chiesa si trova ad affrontare e che riguardano intimamente anche il suo futuro.

L’opinione pubblica in libertà
Dalla rinuncia ad oggi in diversi – teologi, laici e storici autorevoli, vescovi e cardinali –, si sono espressi sulla situazione della Chiesa e/o su quanto sarebbe auspicabile nel futuro pontificato. L’opinione pubblica nella Chiesa si è materializzata a tal punto che la Segreteria di Stato ha ritenuto di emettere un comunicato (23 febbraio) per deplorare questo esercizio di libertà, nel quale si legge tra l’altro: “Se in passato sono state le cosiddette potenze, cioè gli Stati, a cercare di far valere il proprio condizionamento nell’elezione del Papa, oggi si tenta di mettere in gioco il peso dell’opinione pubblica, spesso sulla base di valutazioni che non colgono l’aspetto tipicamente spirituale del momento che la Chiesa sta vivendo”.

Ciò che accomuna molte di queste opinioni è la lista dei problemi che il nuovo Vescovo di Roma dovrebbe affrontare. Non a caso uno dei commentatori di Limes, rivista italiana di geopolitica, nell’edizione on-line annota: “Il problema non è trovare l’accordo sul nome del successore ma sulla sua “agenda”” (http://temi.repubblica.it/limes/la-chiesa-di-fronte-al-mondo-nuovo/42754).

Una forte consapevolezza tra i fedeli
E’ dalla fine degli anni ’60 che i temi di questa “agenda” si vanno allineando attraverso lettere, memorandum o dichiarazioni pubbliche che in vario modo teologi, presbiteri e laici, cioè il Popolo di Dio, hanno inviato ai Pastori. A volte in modo garbato e accorato, a volte in modo forte e fermo, a volte in modo ispirato, a volte in modo forse poco rispettoso del bon ton che si deve usare con chi è investito dell’Autorità, recentemente anche nel modo ultimativo di chi si è arrabbiato perché troppo a lungo inascoltato [1]. Può essere utile, per il momento che stiamo vivendo, rileggere queste opinioni espresse nell’arco di cinquant’anni, perciò non sospettabili di voler condizionare l’attuale elezione del successore di Pietro.

Se si cerca di dare un ordine alle molte pagine sparse si può individuare, facilmente, un ritornare di temi attorno ai quali si potrebbe quasi dire che si sta addensando un sensus fidei o più semplicemente una forte consapevolezza tra i fedeli.

I molti cantieri aperti per il successore di Pietro
L’elenco delle questioni è in ordine sparso nel senso che non si propone un ordine di priorità; quest’ultimo d’altra parte non è facilmente componibile essendo tutte le questioni a loro modo centrali.

La riforma della curia, con una diversa attenzione alle relazioni intra-ecclesiali, è richiesta con sempre maggiore insistenza da più parti; dopo i “fatti” accaduti durante gli ultimi due pontificati, è ormai ineludibile. Non si tratta solo di un’ingegneria istituzionale che riguarda Roma, infatti, la questione non può essere affrontata senza tenere presente il rapporto centro/periferia, una logica globale-locale che dovrà riguardare diversi aspetti del modo di governare la Chiesa: un diverso rapporto con le Chiese locali e la valorizzazione dei loro episcopati; l’attuazione piena della collegialità con Pietro, di cui l’attuale Sinodo dei vescovi è una pallida e ormai obsoleta attuazione, come ha dimostrato l’ultimo Sinodo dedicato alla Nuova Evangelizzazione; il riconoscimento di una diffusa sinodalità nella vita delle Chiese locali fino alla più piccola cellula: la parrocchia.

La questione dei ministeri. La crisi perdurante negli ultimi decenni del ministero ordinato del presbiterato pone, non solo il problema dell’accesso al presbiterato, ma anche dell’approfondimento del tema del sacerdozio comune e della sua necessaria traduzione pratica nella vita della comunità ecclesiale. Si invocano da più parti, il superamento del solo presbiterato celibatario, il riconoscimento di forme di ministerialità femminile; il riconoscimento a laici preparati, accanto alla possibilità di alcune forme di benedizione (v. n. 1669 del Catechismo della Chiesa Cattolica), la possibilità di tenere l’omelia.
D’altra parte è sotto gli occhi di tutti la debolezza di risposte come l’utilizzo di presbiteri di altre nazionalità o continenti, oppure l’accorpamento di più parrocchie che di fatto aumenta l’anonimato delle comunità e “brucia” i preti per eccesso di compiti trasformandoli in “celebranti-viaggiatori” come denunciano i teologi e i presbiteri di lingua tedesca.
Un confronto con la prassi delle Chiese sorelle con le quali si sta cercando di raggiungere l’Unità potrebbe essere di grande utilità.

I temi sensibili e la libertà di coscienza. La prassi pastorale ha allineate di fronte a sé una serie di questioni che via via nel tempo sono andate aumentando e sempre più, in mancanza di risposte, portano ad un abbandono della pratica o anche della Chiesa. L’elenco è lungo ed è tutto relativo alla morale della persona (inizio e fine vita, divorziati risposati, comunità GLBT, prevenzione Aids, ecc.). C’è una crisi di risposte che nasce dal progresso tecno-scientifico applicato alla medicina e dai profondi cambiamenti culturali che hanno aperto una questione antropologica.
La strategia delle risposte settoriali sembra essere intrinsecamente debole; la complessità delle questioni non può che portare in primo piano la libertà di coscienza e l’impegno, certamente difficile, per la sua formazione, abbandonando l’idea di più o meno diretti condizionamenti. Una bella sfida sulla quale occorre spingere ad una ricerca seria, teologi, operatori della pastorale, associazioni cattoliche (medici, giuristi, educatori, …), lasciando loro la necessaria e indispensabile libertà.
Una libertà di ricerca, “recuperata dal Concilio Vaticano II”, che molti teologi di livello internazionale vedevano già insidiata pochi anni dopo la sua conclusione.

L’unità della Chiesa. Il cammino verso l’Unità dopo lo slancio iniziale ha rallentato la sua marcia ed oggi appare stanco, se non fermo. Gli esiti dei dialoghi teologici bilaterali con le varie Chiese, pur avendo raggiunto risultati significativi, restano un patrimonio di carattere accademico che non tocca mai, nemmeno a livello informativo, la pastorale ordinaria. Eppure sarebbe importante per preparare passo passo tutta la Chiesa, non solo la gerarchia, all’incontro.
Via via che si chiariscono i malintesi teologici e che ci si avvicina, sembra diventare sempre più importante intendersi sul ministero d’unità del vescovo di Roma. Già Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (ai nn. 88-96) si apriva alla possibilità di discutere la forma di esercizio del primato in funzione ecumenica (1995).
Perché questo impegno all’Unità, che ci è indicato da Cristo stesso, non resti un vago sentimento occorrerà materializzarlo con segni visibili, sull’esempio di quanto fece Paolo VI nei confronti del Patriarca di Costantinopoli, che lo rendano percepibile a tutto il Popolo di Dio.

L’uso dei beni. Giovanni XXIII nell’annunciare il Concilio aveva parlato di una “Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”; nel clima conciliare molti vescovi si impegnarono con il cosiddetto “Patto delle catacombe” [2] ad una vita sobria e ad una rinuncia ai privilegi, ai titoli d’onore e ai beni; poi, le indicazioni conciliari si tradussero nella “scelta preferenziale per i poveri”.
I “fatti” relativi alla gestione di beni e di istituzioni economiche, come lo IOR, sembrano aver relegato quello spirito in una quinta molto lontana della scena, al punto che “la scelta preferenziale per i poveri” sembra essersi ridotta ad uno slogan.
Su questa materia occorrerà ricercare comportamenti più vicini ai valori “non negoziabili” del Vangelo, per evitare di offrire una contro-testimonianza.

Sommessamente, ma insistentemente
Queste questioni sono note a tutti, anche se le valutazioni sono diverse. In attesa di luoghi di confronto diretto e libero all’interno delle comunità ecclesiali, in modo sommesso, ma sempre più forte e diffuso vengono riproposte. Da tempo ritornano in documenti, articoli di studiosi e di commentatori, recentemente anche in lettere aperte a cura di “semplici” laici. In questi giorni che precedono il Conclave, alcune sono state toccate anche da qualche cardinale.

Chissà, forse domani potrebbe parlarcene anche Pietro.

Franco Ferrari
Presidente Viandanti

 

[1] Una parziale, ma significativa rassegna è documentata anche in questo sito alla pagina http://www.viandanti.org/?cat=12

[2] Il “Patto delle catacombe” non è un documento conciliare, è come un impegno solenne di un gruppo di 40 vescovi presenti al Concilio. Fu reso pubblico durante l’ultima sessione del Vaticano II, alla fine del novembre 1965. Dai padri conciliari fu conosciuto con il nome di “schema XIV”, in riferimento allo “schema XIII” (che poi diventerà la costituzione pastorale Gaudium et Spes), che proprio in quel momento veniva discusso nell’aula conciliare.
Il documento era stato preparato da un gruppo di vescovi che si era riunito periodicamente durante i quattro anni del Concilio per studiare il tema della Chiesa dei poveri; prese il nome di “Patto delle catacombe” per essere stato firmato al temine di una messa celebrata nelle catacombe di Domitilla. Per il testo completo vedere:
http://www.pretioperai.it/index.php?option=com_content&view=article&id=883:un-impegno-solenne-di-un-gruppo-di-vescovi-presenti-al-concilio-1965&catid=128:2005-n67-dov

4 Commenti su “FOGLI SPARSI SULLA SCRIVANIA
DEL FUTURO VESCOVO DI ROMA”

  1. La valorizzazione delle chiese locali delle loro culture, dell’espressione della loro spiritualità e liturgia, dell’elezione del pastore (del vescovo) data al popolo di Dio e non alla curia romana che ne fa solo uno strumento di potere. Se dove c’è un vescovo che ha la pienezza del sacerdozio, li c’e la sua Chiesa, questa deve poter muoversi liberamente ed indipendentemente sempre in sintonia con il suo pastore, può eleggersi i suoi collaboratori che abbiano le caratteristiche specifiche di quella comunità.

  2. Condividendo l’analisi, non sarebbe il momento propizio per dare slancio concreto alla presenza dei laici, lanciando ad es. un appello sulla proposta di affidare i beni dello IOR alla Banca Etica, lanciata su Famiglia Cristiana in questi giorni?
    Penso a un appello da firmare su tavoli e via Internet.

  3. La Curia di Roma…
    Pietro e Paolo hanno lasciato la Curia di Gerusalemme per un mondo più vasto: il mondo dell’impero romano, dell’impero più conosciuto.
    Può darsi che sia tempo di cercare l’impero di oggi.

  4. Ottima rassegna dei problemi. Occorre la presa di parola del popolo di Dio, che attiva i diversi carismi e rigenera le strutture. Occorre anche attiva libertà di coscienza sulle chiusure più dure (divieto di comunicarsi, opposizione alla ospitalità eucaristica ecumenica, che qua e là si pratica: ciò che unisce è la fede nella presenza di Gesù nella sua Cena, e non questa o quella interpretazione teologica).
    Enrico Peyretti, Torino

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