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FINE-VITA. SAPERSI CONFRONTARE
CON I “SEGNI DEI TEMPI”

Paolo Benciolini 

Il “biotestamento “ è legge. Questa formula giornalistica non rende giustizia agli importanti contenuti che essa contiene, ben oltre la stessa regolamentazione delle DAT (disposizioni anticipate di trattamento).

Nonostante la vicenda parlamentare si sia conclusa, negli ambienti ecclesiali non sono venute meno (anzi, si sono intensificate) polemiche e preoccupanti anatemi che giustificano ancor più una riflessione serena che sappia aiutare la Chiesa, come chiedeva il Concilio, a “scrutare i segni dei tempi ed interpretarli alla luce del Vangelo” (Gaudium et Spes, n.4).

Dietro le controverse questioni del fine-vita, emerge il timore dell’ “eutanasia”. Ma ,ancora una volta (come già in passato per le leggi sul divorzio e sull’interruzione volontaria della gravidanza), siamo interrogati a comprendere quale significato assuma l’attuale discussione nell’ottica dei “segni dei tempi”.

Papa Francesco, nella Laudato Si’ (n.61) ribadisce che “su molte questioni concrete la Chiesa non ha motivo di proporre una parola definitiva e capisce che deve ascoltare e promuovere il dibattito onesto fra gli scienziati”.

E’ dunque richiesta una lettura della nuova legge serena e sgombra da pregiudizi, alla luce delle concrete realtà che connotano anche le esperienze di coloro che si avviano verso la fine della vita. Realtà diverse tra loro per le differenti storie di malattia ma anche per il vissuto personale e il contesto umano e sociale che le caratterizza.

L’importanza della medicina palliativa
Quali sono allora le indicazioni provenienti dalle scienze dell’uomo che tale lettura può offrire ai nostri pastori perché anch’essi aiutino la Chiesa ad essere veramente “madre”? Certamente, per cominciare, conoscere l’importanza e le caratteristiche della “medicina palliativa” alla quale la legge dedica l’intero art. 2 (Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita) e che comprende anche la “sedazione palliativa profonda”.

La normativa pre-vigente consentiva già da tempo (L.38/2010) di affrontare anche i problemi del fine-vita in termini innovativi e adeguati alle realtà concrete ma ora è più precisa e specificamente diretta ai problemi del fine-vita. Recependo esperienze già da tempo in atto e accogliendo le richieste che da esse provenivano, il legislatore ha superato finalmente le precedenti restrizioni relative alle competenze degli operatori e all’impiego dei farmaci, inquadrando gli interventi entro alcuni principi fondamentali, quali: non più solo la palliazione per i malati oncologici ma per tutte le persone malate che ne possano trarne sollievo; non più solo la terapia “antalgica” (cura del dolore) ma anche la preoccupazione per la sofferenza; non più solo interventi nella fase terminale (quando “non c’è altro da fare”) ma la nuova concezione delle cure palliative simultanee, accanto cioè alle terapie causali; non più la sola attenzione alla persona malata ma anche al coinvolgimento dei suoi familiari nel vissuto della malattia.

La questione della scelta consapevole
Ne è derivata la necessità di una formazione adeguata degli operatori (non solo medici e non solo sanitari), identificando nel medico di medicina generale il riferimento di fiducia del paziente. Una concezione della medicina che pone accanto al “curare” il “prendersi cura”, valida per tutti gli operatori e per tutti i momenti (non solo dunque nella terminalità) nei quali la persona ammalata può avere necessità. Si pensi, in particolare, alle persone affette da patologie degenerative croniche, per loro natura avviate verso un’evoluzione anche assai protratta nel tempo, e non necessariamente ad esito mortale.

S’inserisce, a questo punto, il tema della scelta consapevole, da parte della persona malata, in ordine ai trattamenti ai quali potrebbe essere sottoposta in futuro, con l’aggravarsi delle sue condizioni e qualora dovesse venir meno la capacità di autodeterminazione (il c.d. testamento biologico). La legge ne tratta all’art. 3 ma tali disposizioni vanno lette integrandole con l’art.1 che è ampiamente dedicato al “consenso“ della persona ammalata e che merita un’attenzione non frettolosa o superficiale.

Il rischio di ricorrere a slogans o a formule impersonali e burocratiche in tema del cosiddetto “consenso informato” (terminologia infelice) è infatti sempre elevato ma ancor più proprio in questa materia, La nuova norma (la prima che tratta questo tema, aldilà dei contributi della giurisprudenza) si sofferma opportunamente sulla relazione tra “l’autonomia decisionale del paziente” e “la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” e contempla esplicitamente, accanto al diritto di accettare, anche quello di rifiutare il trattamento diagnostico e terapeutico (compresa “la nutrizione e l’idratazione artificiale”) esentando il medico da responsabilità civile o penale.

Saper avviare subito il dialogo con il malato
Anche in relazione alle polemiche che hanno immediatamente fatto seguito all’approvazione della legge, sono fermamente convinto che l’impegno affidato a chi (professionalmente o perchè vicino come familiare o amico) partecipa a queste complesse e coinvolgenti vicende deve essere connotato da un preciso criterio di riferimento: nel rapporto che si instaura, deve essere tutelata la persona più debole quella di cui ci si deve prendere cura.

Con strumenti suggeriti anche da personali esperienze nel comitato etico ove opero da diversi anni: saper avviare tempestivamente con la persona ammalata un dialogo basato sulla conoscenza della malattia e delle sue possibili evoluzioni, nonché sulle cure prevedibili e tutti i trattamenti che potrebbero essere disposti (compresi quelli relativi alla alimentazione e all’idratazione artificiali); garantire in ogni momento l’accessibilità non solo alle terapie causali ma anche, quando opportuno, a quelle palliative, nel senso più ampio (e non solo medicalizzato) del termine; assicurare un rapporto di fiducia con la persona che potrebbe domani rappresentare le sue volontà (o anche solo i desideri); saper eventualmente elaborare, con l’aiuto del medico di fiducia ma anche dei familiari affettivamente più vicini, l’espressione delle proprie volontà, nella consapevolezza di poterle modificare in qualunque momento.

Si tratta di contributi di riflessione elaborati con gli altri colleghi del comitato etico sulla base di un comune sentire etico, al di là delle diverse provenienze culturali e religiose, e basati principalmente sul riconoscimento della dignità di ogni persona e sulla necessità di un’attenzione particolare a chi vive, talora (ma non sempre) in solitudine e privo di speranze, esperienze di dolore e sofferenza. Contributi, dunque, tipicamente “laici” e che non possono essere ignorati dalle comunità ecclesiali ed esigono attenzione e rispetto dai loro pastori.

L’alleanza terapeutica
Centrale per comprendere le scelta bioetiche e biogiuridiche della nuova legge è l’art. 5 (Pianificazione condivisa delle cure) il cui valore va ben al di là del particolare tema delle DAT e indica la metodologia corretta di qualunque rapporto tra persona malata e curanti. Il testo è il seguente: “Nella relazione tra paziente e medico…rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l’équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nelle condizioni di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità”.

Per la prima volta il legislatore ha introdotto indicazioni che, pur riguardando la relazione di cura con pazienti affetti da patologie gravi con prognosi infausta, possono essere estese anche ad altre situazioni e finiscono per dettare quasi una metodologia generale della relazione tra la persona malata e chi la cura, in qualunque momento e per qualunque impegno terapeutico.

Di fronte a questa felice formulazione stupisce che autorevoli esponenti della Chiesa italiana abbiano accusato il legislatore di aver codificato l’ “abbandono terapeutico”. Al contrario questa legge è ricca di indicazioni di segno contrario e a favore della “alleanza terapeutica”: dalla pianificazione condivisa delle cure alla previsione che sia “promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico” e gli altri professionisti “che compongono l’equipe sanitaria”.

Una decisa assunzione delle responsabilità che spettano a chi opera laicamente accanto agli altri operatori chiamati a tutelare la salute e la dignità delle persone comunque sofferenti, chiede che queste riflessioni vengano, oggi e nei mesi che ci attendono, “gridate sopra i tetti”.

Proporzionalità delle cure e attenzione all’evoluzione del dibattito
Papa Francesco nel Messaggio al Presidente della Pontificia Accademia per la Vita (7 novembre 2017), attento alla “tradizione”, ci ha ricordato che già sessant’anni fa Pio XII affermava la liceità di astenersi, ”in casi ben determinati”, dall’“impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili”. Più tardi (ma già nel 1980, Dichiarazione sull’eutanasia) è stata la Congregazione per la Dottrina della Fede che ha introdotto il riferimento alla “proporzionalità delle cure”. E ancora il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) che giustifica il non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso e dice con chiarezza: “le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità” (n. 2278).

Francesco, che appare pienamente attento alla stato attuale del dibattito, sottolinea poi che è anzitutto il malato ad avere titolo: “ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare la loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante”.

Di qui l’invito – che non possiamo considerare astratto rispetto alla particolare contingenza politico-legislativa italiana – ad “affrontare (argomenti delicati come questi) con pacatezza, in modo serio e riflessivo e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise, come è proprio delle società democratiche.

Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società”.

Ricordando che “anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede (…) uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete”.

La sfida che i segni dei tempi continuano a proporre oggi alla nostra Chiesa, e ai credenti in Cristo, dinanzi ai problemi del fine-vita è di trovare il coraggio di uscire dalle formule generiche (“evitare sia l’accanimento terapeutico che l’eutanasia”) come pure dai proclami spesso, e proprio in queste vicende, del tutto privi di reale praticabilità (“il diritto alla morte naturale”). Siamo tutti chiamati a guardare, con umiltà e rispetto, alle diverse situazioni concrete, disponibili ad un accompagnamento che non inizi solo nelle fasi terminali della malattia e, quando ad esse si pervenga, capace ancora di esprimersi, anche se solo con gli sguardi e qualche carezza.

Paolo Benciolini
Membro della Redazione della rivista Matrimonio, che aderisce alla rete dei Viandanti.
L’articolo è tratto dalla più ampia riflessione pubblicata sul numero 4 (dicembre 2017) di Matrimonio

3 Commenti su “FINE-VITA. SAPERSI CONFRONTARE
CON I “SEGNI DEI TEMPI””

  1. Commento molto chiaro ed esaustivo che condivido totalmente.
    Mi fa piacere ritrovare in queste parole il Paolo Benciolini che ho conosciuto ai tempi della FUCI

  2. Sono d’accordo.Per esperienza vorrei aggiungere che è urgente una adeguata formazione dei medici tutti sulla alleanza terapeutica e la comunicazione, sia con il malato che con il contesto umano, i quali devono ricevere chiarezza sulla situazione con linguaggio comprensibile ai non addetti ai lavori.
    grazie.

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