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BENEDETTO XVI E FRANCESCO
TRA STORIA E TEOLOGIA

Fulvio De Giorgi

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L’articolo “La Chiesa e la logica del ma anche”, che Aldo Maria Valli ha postato nel suo blog il 28 maggio u.s., ha aperto un serrato dibattito con Andrea Grillo nel quale si è inserito, per l’aspetto della continuità tra i due ultimi pontificati, anche lo storico Fulvio De Giorgi. Il testo che segue si inserisce in questo filone della discussione, questa volta De Giorgi-Grillo.
Per una documentazione completa degli interventi cliccare qui.

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Circa la continuità storica tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Francesco, Andrea Grillo ha ulteriormente commentato il mio commento (su “Avvenire”) alla sua discussione con Aldo Maria Valli. Lo ringrazio per l’attenzione, per il confronto sereno e cordiale ed anche per l’esplicitazione dei punti di dissenso: tale esplicitazione è molto utile per un serio approfondimento delle questioni. Da parte mia, segnalato un consenso di fondo alle sue posizioni, mi pare utile proseguire proprio sul filo delle questioni sulle quali abbiamo valutazioni diverse.

Per evitare fraintendimenti
Sgombro subito il campo da possibili fraintendimenti: non voglio fare un discorso ideologico sulla ‘continuità’, né, tanto meno, usare la continuità per riportare cronologicamente indietro Francesco e dire che nel suo insegnamento (fino all’innovativa Amoris Laetitia) non ci sia nulla di nuovo. Capisco benissimo i timori in tal senso, perché letture (scorrette) di questo tipo ci sono. Tuttavia, se ho capito bene, il nostro dissenso non verte tanto su una diversa valutazione della continuità tra i due pontificati, ma sulla differente lettura del pontificato di Benedetto XVI (da tale lettura dipende poi il problema della continuità/discontinuità).

Se dunque Grillo si preoccupa – giustamente – che non ci sia un’interpretazione caricaturale di Francesco, non mi pare scorretto aggiungere che neppure per Benedetto XVI si può indulgere all’interpretazione, anch’essa caricaturale, del ‘pastore tedesco’, chiuso e anti-moderno.

Lascio da parte quello che Grillo chiama un punto di vista ‘apologetico’ e che forse, meglio, si direbbe un punto di vista di fedele della Chiesa cattolica: su questo piano ammetto, puramente e semplicemente, un grande affetto e una favorevole simpatia (anche, certo, nel mio stesso punto di vista) verso papa Ratzinger: che non mi impediscono, peraltro, di essere un entusiasta di Francesco. Ma qui vorrei svolgere tre osservazioni da storico.

In una prospettiva generale e laica
Innanzi tutto, nell’analisi della storia della Chiesa, dobbiamo evitare, a mio avviso, due riduzionismi unilaterali opposti. Il primo, al quale mi pare soggiaccia Grillo, è di vedere la storia della Chiesa quasi sotto una campana di vetro, staccata dalla storia generale e indifferente ad essa: una sorta di autoreferenzialità interpretativa, per cui tutto si spiega per logica interna e in relazione alle vicende e ai problemi endoecclesiali. Si tratta, cioè, di un integralismo metodologico (pur nella differenza tra un integralismo riformatore e uno conservatore).

Il secondo riduzionismo unilaterale è l’esatto opposto: è il laicismo metodologico di chi considera solo le dinamiche sociologiche e psico-sociali della Chiesa come struttura di potere, analoga allo Stato, alle istituzioni civili, ai sistemi politici. Si può certamente studiare solo uno di questi aspetti (o solo le vicende intra-ecclesiali o solo lo sviluppo delle forme giuridiche di potere), anch’io talvolta l’ho fatto, ma non si può elevare unilateralmente ciascuno di essi ad unico e assoluto criterio di interpretazione storica.

Meglio vederli insieme (e comunque sapere che una prospettiva generale deve comprendere entrambi). Ciò significa allora considerare l’evoluzione storica generale degli ultimi decenni, almeno dalla fine del comunismo. Parlo di post-moderno, di neoliberalismo (con il suo accentuato individualismo) e anche di nichilismo, che a me pare oggi largamente presente nella cultura e perfino nelle mentalità diffuse. Capisco che la sintesi può sembrare uno schematismo, perfino banalizzante (e allora non posso che rimandare ai miei libri per una più analitica ricostruzione storica).

Tuttavia non mi pare una diagnosi molto diversa da quella – che condivido – di Francesco in Evangelii Gaudium: “diffusa indifferenza relativista, connessa  con la disillusione e la crisi delle ideologie” (n. 61); “società materialista, consumista e individualista” con “individualismo imperante” (n. 63); “progressivo aumento del relativismo” (n. 64); “individualismo postmoderno e globalizzato” (n. 67); “Questo relativismo pratico consiste nell’agire come se Dio non esistesse” (n. 80); “si è prodotta una ‘desertificazione’ spirituale” (n. 86).

Questo contesto problematico, già profilatosi nel tramonto del pontificato di Giovanni Paolo II, è emerso con una forza perfino devastante, successivamente: le forme pastorali allora presenti si sono rivelate inadeguate, la necessità di un cambiamento evidente. È tale contesto storico generale che segna, necessariamente, la caratteristica storica dei pontificati che in esso si inscrivono e che, pur tra altri problemi, hanno avuto entrambi prioritariamente davanti questa sfida decisiva, che implica una difficile ma ineludibile assunzione della ‘complessità’ (teorica e pratica). Nel caso di papa Ratzinger si vedano la Deus caritas est, la Caritas in veritate, il Sinodo del 2012. Si veda, al VII Incontro mondiale delle famiglie (a Milano), la chiara emersione del problema dei divorziati risposati e le importanti parole di Ratzinger: non ci sono ricette semplici (non a caso riprese nella Amoris Laetitia).

Guardare al lungo periodo
Seconda osservazione. Il senso storico di un pontificato, cioè il discernimento tra gli aspetti storicamente più importanti e quelli meno significativi, si chiarisce su un periodo lungo che comprende predecessori, ma anche successori: ciò anche oltre la ‘coscienza riflessa’ degli stessi protagonisti, pur importante (per esempio, nel caso di papa Francesco, a me pare – come ho sostenuto in un recente convegno romano – decisivo il suo ‘rapporto’ con Paolo VI più che con altri suoi predecessori). Ma contano anche i successori. Ecco che qui Grillo – ed è paradossale – svaluta la considerazione di papa Francesco e del significato del suo pontificato come chiave di lettura per chiarire il senso storico del pontificato del suo immediato predecessore.

Mi spiego con un esempio di storia, per così dire, ‘controfattuale’. Ipotizziamo che nel Conclave del 1963 sia stato eletto Siri – un Gregorio XVII o un Pio XIII – e che il Concilio Vaticano II sia stato subito chiuso, senza approvazione di documenti. Cosa ricorderemmo, come storicamente significativo, di Giovanni XXIII? La conferma della scomunica dei comunisti, la completa messa al bando dei preti operai, la nomina di Ottaviani a segretario del S. Uffizio, la riconferma dell’uso del latino nella liturgia, il monitum in materia biblica e quello di censura a Teilhard de Chardin, perfino l’uso del camauro. E Grillo gli rimproverebbe di aver messo la preparazione del Concilio, come in effetti fu, sostanzialmente nelle mani della Curia, facilitando la ‘repressione’ di papa Siri. Così non è avvenuto, lo sappiamo. Ma sono proprio il pontificato di Paolo VI e l’esito grandioso del Vaticano II che danno – certo insieme alle più generali considerazioni storiche – un altro e opposto (e verissimo) valore storico al pontificato roncalliano. Non che gli aspetti, prima indicati, non ci siano stati: ma li leggiamo come persistenze residuali e finali di aspetti storici del passato, storicamente poco significativi.

Ecco allora che il pontificato di Francesco ci aiuta a discernere gli aspetti storicamente rilevanti del pontificato di Benedetto XVI. Che a mio avviso, e schematizzando, sono i seguenti:

1. Il riconoscimento (senza più conniventi coperture o inaccettabili minimizzazioni) della pedofilia dei preti come sporcizia nella Chiesa e perciò come ‘piaga della Chiesa’: problema sistemico cioè, che comprende casi di Fondatori come Maciel [Legionari di Cristo – ndr].

2. Il contrasto del nichilismo (teorico) postmoderno, inteso come scetticismo relativistico, ma contrasto realizzato non con il tradizionale rifiuto del Moderno, bensì in una forma analoga a quella di Habermas (con il quale Ratzinger dialoga): come Habermas ricerca – nel kantismo – una risposta moderna al post-moderno, così Ratzinger la ricerca in grandi filosofie cattoliche ‘filo-moderne’ (Rosmini e Newman, Guardini e Blondel), che sono ‘filosofie della carità’.

3. Da qui la beatificazione di Rosmini (superando le condanne del S. Uffizio di fine Ottocento): si tenga conto che tutti gli oppositori del Vaticano II sono sempre stati anche oppositori di Rosmini (si consultino, anche oggi, i siti tradizionalisti). Questa beatificazione (insieme, ma ancor di più di quella di Newman) è un evento epocale: vero culmine del pontificato.

4. Insieme a questa sfida della metafisica della carità al nichilismo, Benedetto XVI è consapevole che ci vuole pure un conseguente e coerente cambio ‘pratico’ e lo formula come vero rinnovamento nella fede, in senso di santità ascetica: come auto-secolarizzazione della Chiesa. Si veda il discorso del 25 settembre 2011 a Friburgo (ma tutti i discorsi di quel viaggio in Germania sono significativi). È una prospettiva a mio avviso profonda e lucida (e bellissima), ma difficilmente popolarizzabile. Quando papa Ratzinger – è questa la mia lettura – si rende conto di non avere le energie necessarie per guidare questa auto-secolarizzazione ecclesiale, passa la mano.

5. A questo proposito, parlare di “prendere l’iniziativa di perdere l’iniziativa” mi pare (oltre che ingeneroso) minimizzante e non adeguato per la comprensione storica. Si è trattato, senza alcun dubbio, di un gesto ‘rivoluzionario’ (che non ha precedenti storici moderni, ma che – per qualche storico – è un vero ‘unicum’ assoluto): per usare, laicamente, le categorie weberiane, trasforma il potere papale da tradizionale-carismatico in razionale-carismatico. È la forma che riapre al rilancio in grande stile del Vaticano II (impensabile una rinuncia, non destabilizzante, al ministero petrino, se non nel pleroma collegiale dell’ecclesiologia del Vaticano II).

Un andamento stop and go
Ed eccoci alla terza considerazione storica. Chi conosce la storia della Chiesa, sa bene che ad epoche di grande riforma sono progressivamente subentrate fasi di rallentamento, fino al semi-immobilismo (Rosmini distingueva tra ‘epoche di marcia’ ed ‘epoche di stazione’). È successo pure per la ‘riforma cattolica’ del Concilio di Trento. E allora ci sono poi stati momenti in cui, dall’interno della Chiesa e in modo non polemicamente ostile alla sua gerarchia, mistici o pastori, religiosi o laici hanno richiamato la necessità di rilanciare il movimento riformatore: gli storici parlano, dunque, di momenti di ‘ripresa tridentina’.

A me pare un dato storico chiaro che sia avvenuta la stessa cosa con il Concilio Vaticano II. Progressivamente lo slancio riformatore ha rallentato fino quasi a fermarsi del tutto. E quando sono cominciate a emergere le prime voci che richiamavano la necessità di riprendere la riforma conciliare? A me pare proprio con il pontificato di Benedetto XVI. Certo erano voci minoritarie e marginalizzate (ma non condannate), che a fatica – e non senza ostilità nei loro confronti – potevano esprimersi. Ma parlavano, esprimevano disagio, richiamavano la necessità di un rilancio del Concilio, e talvolta citavano proprio il papa.

Ammetto di non aver fatto ricerche empiriche su questo aspetto e di basarmi su impressioni e ricordi. Ma rivendico di poter dire qualcosa per ‘conoscenza personale’, di portare almeno una testimonianza, rimandando a precisi documenti scritti (il mio libro Il brutto anatroccolo del 2008 e il successivo Più coraggio! del 2015, ma che raccoglie interventi precedenti). Qui dovrei largamente auto-citarmi e non è certamente il caso. Vorrei solo ricordare che nella mia relazione al VII Incontro mondiale delle famiglie nel 2012 ho, tra l’altro, affermato: “Le questioni attinenti alla sessualità di coppia, alle differenze di genere, alla discriminazione omofobica si sviluppano sia come richiesta di nuovi modelli familiari, sia come forte interpellanza alla Chiesa affinché ripensi seriamente alle forme del sacramento del matrimonio (incluse le questioni della sessualità prematrimoniale e matrimoniale), al regime dei divorziati risposati, alla possibilità dell’accesso al matrimonio per i sacerdoti e al sacerdozio per i coniugati, a realtà istituzionali e canoniche nuove, come quelle di un ministero ordinato femminile o di convivenze tra persone dello stesso sesso”. Faccio ammenda: avrei dovuto parlare di sacerdozio ministeriale. Ma comunque il senso era chiaro. In realtà, se guardo autobiograficamente a questi fatti, dovrei dire che il clima di prevalente chiusura portava a pagare dei prezzi (più o meno alti) per chi pronunciava giudizi di questo tipo. Ma se invece, con un autotrascendimento, cerco di guardare le cose in prospettiva storica, devo notare che durante il pontificato di Benedetto XVI furono espresse delle esigenze che avrebbero trovato una piena risposta (positiva) nel pontificato successivo.

In conclusione mi chiedo se non sarebbe forse anche il caso di considerare come soggettivamente si pone Francesco: non rispetto al papa emerito, dunque nella chiave unicamente personale dell’affetto, ma rispetto al magistero del suo predecessore e al suo pontificato. Una risposta, forse, sta nella Lumen fidei: nel decidere di pubblicarla, di farla propria (con integrazioni di proprio pugno) e di firmarla.

Un interrogativo come semplice fedele
Termino con una domanda – non da storico ma da fedele di ‘base’ e di parrocchia quale sono – all’amico Grillo, che mostra di avere verso Francesco sentimenti e pensieri non diversi dai miei. Se è ingiusto (e non è cattolico) che chi si sente vicino al magistero di Ratzinger, chi si sente ratzingeriano, svaluti e critichi papa Bergoglio e non si sforzi, in buona fede, di capirlo ma anzi contrapponga Ratzinger a Bergoglio, non è altrettanto ingiusto che chi si sente in sintonia con Bergoglio, svaluti e critichi Benedetto XVI e lo contrapponga a Francesco? A mio modo di vedere (e secondo il mio sensus Ecclesiae, non so se ‘apologetico’, come dice Grillo), i primi fanno un cattivo servizio a papa Ratzinger e ostacolano un equanime giudizio storico del suo pontificato, ma anche i secondi, temo, non fanno un buon servizio a Bergoglio. Lo dico con semplicità e amica simpatia, non mi impanco a maestro: credo, solo, che faremmo bene tutti ad alimentare un’appartenenza cordiale alla Chiesa.

Fulvio De Giorgi
Docente di Storia dell’Educazione all’Università di Modena e Reggio Emilia.
Coordinatore del Gruppo di Riflessione e Proposta di Viandanti.

2 Commenti su “BENEDETTO XVI E FRANCESCO
TRA STORIA E TEOLOGIA”

  1. Concordo sostanzialmente con quanto scritto da Fulvio De Giorgi, anche se confesso di non avere letto gli interventi di Valli e di Grillo cui egli si riferisce. Vorrei aggiungere che, fra molte altre iniziative che si richiamavano al Vaticano II e alle quali ho anche partecipato personalmente, dovrebbe essere ricordata quella di CHIESA DI TUTTI, CHIESA DEI POVERI che indisse un primo incontro per il settembre 2012, per ricordare in anticipo i 50 anni dall’inizio del Vaticano II, che ebbe grande successo e venne preparata e realizzata ben prima della elezione a Vescovo di Roma di papa Bergoglio.

  2. A me non pare che sia in gioco un lezioso ed inutile confronto B16/Francesco…
    Quello che vedo/leggo è l’accusa a Bergoglio di essere fuori dalla Chiesa.
    Può anche darsi.. Ma:
    1) Da QUALE chiesa???
    2) e se invece fosse sempre DENTRO l’Evangelo?
    Cosa è più importante in un secolo in cui “Chiesa” è tuttora in via di definizione ( cfr lo stesso Ratzy..)

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