CONGO RD: LA PACE TRUMPIANA
E UNA RAPINA SENZA FINE
Giusy Baioni
Nel grande marasma internazionale, con crisi vecchie e nuove che attirano su di sé tutte le attenzioni, l’Africa resta sempre in ombra. Un destino non ineludibile, eppure di fatto è quello che accade: c’è sempre una crisi più importante e più urgente da raccontare, da seguire, da mediare, su cui sensibilizzare.
Non si tratta certo di fare una scala di importanza, né assolutamente di negare gli altri drammi atroci in corso. Tutt’altro: si tratta di capire che il nostro mondo è divenuto ormai così piccolo che quanto accade dall’altra parte del globo, anche in zone che a noi paiono remote, ha ripercussioni immediate qui da noi. E viceversa.
Terre rare e amare
Le dinamiche geopolitiche spesso si ripetono con una similitudine quasi sorprendente. Come accade, ad esempio, per il dramma della Repubblica Democratica del Congo e di tutta la regione dei Grandi Laghi. Una storia complessa, un conflitto ormai più che trentennale, che come tale ha ormai una serie di cause stratificate e intrecciate fra loro.
Cause remote, che originano nella storia della colonizzazione, e cause ben più recenti e immediate, come la sete implacabile di materie prime da parte non solo dell’Occidente, ma anche della Cina e ormai di tutto il mondo, che della tecnologia non può più fare a meno. Uno sviluppo ultrarapido, che richiede e consuma sempre nuove risorse, e che probabilmente con l’intelligenza artificiale ne richiederà ancora di più.
Una marcia a tappe forzate che non guarda in faccia a nessuno, una corsa al progresso a tutti i costi, all’arrivare primi. Sempre sulle spalle degli ultimi della Terra.
La pace trumpiana: un accordo commerciale
Non a caso, qualche tempo fa, al neoeletto Trump il presidente ucraino Zelensky aveva offerto i contratti minerari per lo sfruttamento dei giacimenti di terre rare in cambio del prosieguo del sostegno militare Usa. Poco tempo dopo, la stessa identica proposta a Trump è giunta dal presidente congolese Felix Tshisekedi, alle prese con l’M23, il gruppo armato che stava (e sta) occupando l’est del Congo: contratti minerari in cambio di assistenza militare per riconquistare il territorio perduto.
Detto fatto: il 27 giugno, nella sala ovale della Casa Bianca, un soddisfatto Trump ha annunciato la firma di un accordo “storico” che metteva fine alla guerra fra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo. Un accordo che tuttavia ha subito suscitato perplessità da più parti.
“Dovremmo accogliere con favore una nuova iniziativa di pace per mettere a tacere le armi e porre fine alle sofferenze della popolazione civile”. “Ma una pace giusta e duratura non può essere raggiunta a qualunque prezzo.” Così commentava a caldo il dott. Denis Mukwege, medico ginecologo congolese e Nobel per la pace 2018. Purché sia pace, va tutto bene? Oppure no? E sarà pace vera?
I dubbi ci sono e sono molti. Anzitutto perché il conflitto nella regione si protrae da decenni e le sue cause profonde e le sue incrostazioni saranno ben difficili da rimuovere. Inoltre, perché negli anni i congolesi hanno visto firmare accordi su accordi e hanno continuato a morire come prima. Infine, perché nel merito il trattato lascia troppi punti in sospeso.
Mezze verità e rinvii
Come spiega bene Mukwege: “… questo accordo non si basa sul riconoscimento, da parte del mediatore americano, dell’esistenza di uno Stato aggressore, il Rwanda, che sfida ogni giorno il diritto internazionale nella più totale impunità, e di un Paese attaccato, la Repubblica Democratica del Congo”.
L’ultima fiammata del conflitto (quella che aveva persino ottenuto spazio nei nostri TG, per una frazione di secondo, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio) era dovuta – come accennato – all’occupazione di ampie fette delle regioni orientali del Nord e Sud Kivu da parte del gruppo armato M23, che da allora continua a controllare anche i due capoluoghi, Goma e Bukavu.
A fianco dei guerriglieri (super armati e ottimamente equipaggiati) era stata documentata anche la presenza di 3/4mila soldati regolari rwandesi, anche se la loro presenza non era mai stata ammessa da Kigali. Ebbene: di M23 negli accordi si parla solo per rinviare ad altri colloqui che sono in corso a Doha, Qatar, fra il governo congolese e gli esponenti del gruppo stesso.
E dunque, mentre a Washington si festeggiava, nel Kivu la gente continua a tirare a campare sotto un governo di fatto, illegittimo, che ha preso il potere presentandosi come “liberatore” ma che amministra con pugno di ferro, eliminando chiunque osi opporsi e sfruttando a piene mani le ingenti risorse minerarie della zona.
Un supermercato di materie prime e rare
È vero che ci sono molte ragioni storiche, legate alle etnie, alle terre, ai diritti delle minoranze e alle tante strumentalizzazioni di questi elementi. Ma alla fine ciò che davvero interessa (a Trump e a tuti gli altri attori in gioco) sono le risorse.
La Repubblica Democratica del Congo è il forziere del mondo. Qualunque risorsa serva, state pur certi che da qualche parte nel sottosuolo o nella foresta congolese la si trova. A partire dall’immensa biodiversità delle foreste originarie e dal bacino del fiume Congo, il secondo al mondo dopo quello amazzonico, che avrà un’importanza strategica sempre più centrale.
E poi c’è tutto il resto: dai tempi degli schiavi deportati oltremare, passando per il caucciù, poi per il petrolio e il gas e per i sempiterni oro e diamanti, fino a giungere alle risorse strategiche e ai minerali rari: la RDC è il primo paese al mondo per riserve di coltan e cobalto, cui di recente si è aggiunta la scoperta di un enorme giacimento di litio.
Importantissima la “copper belt” (l’enorme filone di rame nel sud, al confine con lo Zambia), per non parlare di zinco, uranio (da qui veniva quello utilizzato per le bombe su Hiroshima e Nagasaki), stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio, niobio, titanio… e si potrebbe continuare.
La maledizione dei congolesi
Uno “scandalo geologico” che da benedizione si è trasformato in maledizione per la gente che ci vive, che non solo non ne trae beneficio alcuno, ma è spesso costretta a lavorare nelle miniere (anche i minori) in condizioni pessime, ottenendone pochi spiccioli, problemi di salute e devastazione ambientale, e in più – nell’est – pure guerra, instabilità, stupri di massa e saccheggi.
Ebbene: a questa situazione di rapina continuata pare non ci sia fine. Non è un caso che il vero cuore dell’accordo siglato il 27 giugno a Washington e benedetto da Trump come “storico” sia in realtà un altro: quello economico.
Lo stesso Trump aveva subito rimarcato: “”Stiamo ottenendo, per gli Stati Uniti, molti dei diritti minerari del Congo”, che il testo edulcorato dell’accordo traduce nella decisione di “avviare, entro tre mesi, il quadro di integrazione economica regionale a più fasi”.
L’impegno dichiarato è quello di introdurre “una maggiore trasparenza” nella catena di approvvigionamento dei minerali critici, “bloccando così i canali economici illeciti e garantendo maggiore prosperità per entrambe le parti, in particolare per la popolazione, grazie alle risorse naturali della regione attraverso partnership e opportunità di investimento reciprocamente vantaggiose”. Ed è certamente qui che si inseriranno le industrie statunitensi.
Una cooperazione bilaterale, anzi trilaterale
Non solo: l’”integrazione bilaterale” (così nell’accordo) avvierà la cooperazione anche sulla “gestione dei parchi nazionali (e ricordiamo che al confine fra Ruanda e Congo RD si trova il parco più antico d’Africa, il Virunga), lo sviluppo dell’energia idroelettrica, la riduzione del rischio delle catene di approvvigionamento minerario, la gestione congiunta delle risorse nel lago Kivu (un lago limnico, nelle cui profondità si trova un enorme giacimento di gas) e catene del valore minerario end-to-end trasparenti e formalizzate (dalla miniera al metallo lavorato) che collegano i due paesi in partnership, ove opportuno, con il governo e gli investitori degli Stati Uniti.”
E se la cooperazione bilaterale non bastasse, “insieme ai partner chiave, le Parti si impegnano a valutare opzioni per collegare il quadro ad altre iniziative di sviluppo economico regionali o internazionali, anche attraverso progetti infrastrutturali”.
Infrastrutture – è lecito supporre – come il cosiddetto Corridoio di Lobito, già avviato dall’amministrazione Biden: un collegamento ferroviario che dalle miniere dell’ex Katanga porti cobalto e rame fino ai porti dell’oceano Atlantico. Solo un esempio delle infrastrutture già progettate.
Difficile parlare di pace
Di certo l’idroelettrico sarà un altro punto chiave, non solo nel Kivu dove è già in dirittura d’arrivo la diga Ruzizi 3, sul fiume omonimo che collega i laghi Kivu e Tanganika, che fornirà elettricità a Congo, Rwanda e Burundi, ma chissà in quali altre direzioni, essendo il bacino del fiume Congo il secondo più importante al mondo.
Non è forse un caso che – a fianco degli Usa – l’altro attore chiave in questo accordo sia il piccolo Qatar, entrato in gioco a sorpresa lo scorso marzo, e che oggi viene indicato nero su bianco come membro del comitato di monitoraggio dell’accordo. Un paese piccolo ma ricchissimo, e soprattutto con grossi interessi economici nella zona, in particolare per varie partnership già avviate con il Rwanda.
Al Qatar forse serve la pace per lo sviluppo dei suoi interessi? Staremo a vedere. Di certo, non si potrà parlare di pace finché la gente non potrà vivere sicura nella propria terra, senza armi, senza imposizioni e senza sfruttamento.
Giusy Baioni
Giornalista free lance specializzata nell’Africa dei Grandi Laghi
[Pubblicato il 3.7.2025]
[L’immagine è ripresa dal sito: cvdvn.net]
Carissimi, siamo alle solite. Non riusciamo a vivere senza gli interessi di bassa economia e finanze. Siamo al “buio”. La PAROLA non rientra nella mentalità dei politici a qualunque schiarimento politico appartiene. Anche noi che ci definiamo non di destra abbiamo combattuto gli sbarchi con il rimpatrio forzato. Mi ricordo che il ministro Minniti lì faceva imbarcare negli aerei con le fascette di plastica a due a due accompagnati dalle forze dell’ordine, con spese ingenti. Ricordo pure gli ingressi dei profughi albanesi, in questo caso, giustamente, nessuno scandalo. A me non piace parlare di religione, non ne ha parlato nostro Signore però facciamo in modo che ognuno nella propria libertà rispetti e viva la PAROLA senza andare a fare proselitismo. Madre Teresa non ne ha mai fatto. Ho detto alcune cose che sento nel cuore e non propongo che gli amici ed i parenti di Netanyahu fanno la stessa esperienza dei palestinesi. Non tocca a me giudicare ma se un giorno lo vedrò appeso ad un palo pregherò per quelli che sono stati avvelenati da queste violenze. Cari saluti Ottavio Tiralongo