LA SINODALITÀ SIA UNA PRATICA ABITUALE DELLA CHIESA
Intervista al teologo Giuseppe Ruggieri
a cura di Giampiero Forcesi
Il testo della presente intervista (parte prima) viene pubblicato anche dalle riviste: Dialoghi (Lugano/CH), Esodo (Mestre/VE), Il gallo (Genova), il tetto (Napoli), Koinonia (Pistoia), l’altrapagina (Città di Castello/PG), Matrimonio (Padova), Nota-m (Milano), Oreundici (Roma), Tempi di fraternità (Torino).
Le riviste, che aderiscono alla Rete dei Viandanti, con questa iniziativa vogliono dare visibilità ad un progetto comunicativo unitario, che intende, tra l’altro, promuovere una riflessione sui temi che papa Francesco indica per la riforma della Chiesa, a partire proprio dalla questione della sinodalità. (V)
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Hai intitolato il tuo ultimo libro – un libro impegnativo ma affascinante – Chiesa sinodale[1].
Nell’introduzione dici che, se non fosse per pudore, l’avresti potuto intitolare Esistenza, chiesa e pensiero sinodale,
perché i capitoli che lo compongono, hanno un nesso forte con il tuo cammino personale, le esperienze che hai fatto, il pensiero che hai elaborato.
Un cammino e un pensiero che nella dimensione della sinodalità,
cioè del camminare insieme, hanno trovato un punto di fusione, sebbene mai in modo definitivo.
Ecco, forse, possiamo incominciate di qui. Dalle tappe della tua vita e del tuo pensiero in cui l’aggettivo sinodale è emerso in modo più significativo…
Decisivi sono stati nel mio cammino, ai fini della riflessione sulla natura sinodale della chiesa, soprattutto due momenti. Ho avuto la fortuna di partecipare da “stenografo” ai primi due periodi del concilio Vaticano II. E poi, a distanza di un quarto di secolo, il vescovo della mia Diocesi, Noto in Sicilia, mi ha chiesto di aiutarlo a gestire il sinodo diocesano.
Ma queste date dicono poco da sole. Giacché laddove ho maturato i criteri per comprendere il tutto è stata la mia collocazione pastorale. Per 25 anni, dal 1972 al 1997, assieme ad alcuni amici, preti e laici assieme, decisi di vivere vicino a quelli che in quel momento consideravamo ultimi, assumendo la responsabilità collettiva di una parrocchia cosiddetta “a rischio”. Lì maturai la prima forma “sinodale” del mio pensiero e non a caso scrissi un libro che non parlava ancora di sinodi, ma portava come titolo “La compagnia della fede”.
La tappa attuale della mia riflessione teologica è infine quella che ho cercato di testimoniare nell’ultimo capitolo del libro che, apparentemente, non ha nulla a che fare con il tema della sinodalità, giacché il capitolo porta il titolo di “antropologia messianica”. In quel capitolo ho cercato di indicare quello che dovrebbe essere il criterio ultimo di ogni prassi sinodale.
“Messianico”, per chi non lo ricordasse, significa semplicemente “cristiano”, cioè seguace di Cristo, l’attributo greco che traduce l’ebraico “unto”, messia. E Gesù è stato confessato come il Messia dalla prima generazione cristiana, perché ha realizzato le promesse contenute nel profeta Isaia, cioè perché, caricandosi del peccato di tutti (Is 53), ha portato il lieto annuncio ai poveri, ha liberato gli oppressi (Is 61) ecc, ecc.
E lo ha fatto, dicono i Sinottici, “mosso fin nelle viscere” dalla loro sofferenza (è illuminante nei Sinottici l’uso del verbo splanchnizomai con la sua connotazione messianica). Questa è la convinzione riassuntiva della mia esperienza di prete. Nella chiesa non si dovrebbe parlare d’altro, se non delle modalità in cui rendere presente oggi il vangelo del Messia. Ma questo implica una compagnia effettiva con gli con gli ultimi.
Nel tuo libro, spieghi che i sinodi, a tutti i livelli, sono stati celebrati, per lo più, per elaborare un consenso nella chiesa sulle questioni per le quali un consenso ancora non esisteva.
E scrivi che non può esserci vita della chiesa se non come evento sinodale, qualunque sia la forma che questo evento assuma,
e che relegare la prassi sinodale solo a circostanze contingenti significa “affermare che l’essere della chiesa è senza vita propria,
che appartiene al regno dei minerali e non delle realtà viventi e organiche”.
Guardando ai nostri giorni, aggiungi che la sinodalità vive nella chiesa spesso nascosta sotto forma di “surrogati”,
e annoti che “si potrebbe scrivere la storia della chiesa del Novecento, soprattutto quella della promozione dei cosiddetti ‘laici’,
come una storia dell’invenzione di surrogati sempre più deboli da opporre alla piena riscoperta della comunione ecclesiale”.
Puoi spiegare il tuo pensiero sulla natura di questo “consenso”?
Pensi realmente a una forma sinodale, che vada oltre i surrogati, come prassi di vita quotidiana della chiesa, a tutti i livelli, fino alle singole parrocchie?
L’affermazione che i sinodi appartengono alla quotidianità della chiesa non è mia, ma l’ho ripresa da uno dei più grandi storici dell’idea sinodale, il gesuita tedesco Hermann Sieben.
Ovviamente, in quest’affermazione, “quotidiano” vuole indicare semplicemente “abituale”, nel senso che ogni orientamento nella chiesa non può essere espressione di una parte soltanto del popolo di Dio, fosse pure la gerarchia episcopale, ma lo deve essere del popolo cristiano tutto, rispettando il contributo che i vari ministeri e carismi, col proprio preso specifico, possiedono.
Nel libro riporto un pensiero del Cusano, che egli applicava al consenso tra i vari ministeri: “la vera concordia è intessuta con fili diversi” (vera concordia ex diversitate contexeretur)”. Ciò non avviene senza conflitti, a volte aspri, come la convivenza ecclesiale e la storia dei concili dimostrano a sufficienza.
Questa convinzione è stata progressivamente dimenticata dopo il concilio di Trento, fino all’assurda affermazione di Pio X secondo il quale nella chiesa ci sono le pecore a cui spetta obbedire e i pastori a cui spetta comandare. Il Novecento ha sperimentato invece la ripresa progressiva della convinzione della comune dignità dei cristiani, a partire dalla cosiddetta “collaborazione dei laici alla gerarchia” che, pur essendo un surrogato, era tuttavia la timida ripresa della responsabilità originaria e propria dei cristiani, cioè dei messianici tutti.
Ma questa presa di coscienza dovrebbe attuarsi già nella prassi delle parrocchie. A mio avviso almeno una volta l’anno esse dovrebbero celebrare i propri sinodi, anche senza chiamarli così. La cosa importante è la loro preparazione, con la scelta degli argomenti e l’effettiva presenza delle varie componenti della realtà parrocchiale, rompendo i vari “cerchi magici”.
Il “modello” della loro celebrazione, con gli ovvi adattamenti, dovrebbe poi essere lo stesso di un qualsiasi concilio, soprattutto con le preghiere di inizio e fine, l’intronizzazione del vangelo, il diritto di parola di tutti, senza gerarchie fasulle.
Per capire lo spirito di queste riunioni basterebbe meditare la tradizionale preghiera di apertura dei sinodi, quella che porta il nome del verbo con cui essa inizia: Adsumus.
Il capitolo centrale del libro ha per titolo “Repraesentatio”.
Sostieni che al centro di un evento sinodale c’è il rendersi presente di Cristo mediante il suo Spirito, e che è questa presenza operante che crea il consenso fra i partecipanti.
Questa categoria (la repraesentatio Christi, o la repraesentatio ecclesiae) è la chiave – dici – per comprendere la profondità di ogni evento sinodale nella chiesa.
Il consenso, infatti, è reso possibile per l’influsso in atto della presenza dello Spirito; e, d’altra parte, è proprio l’accordo, il consenso, che permette di parlare di una presenza dello Spirito, e dunque di un permanere nella verità. Un evento sinodale è autentico, dunque, se ha la capacità di suscitare consenso.
Dopo aver osservato che, viceversa, nella teologia attuale l’espressione repraesentatio Christi è utilizzata solo nell’ambito sacramentale (l’eucaristia) e in quello ministeriale,
concludi sostenendo che la comprensione del senso autentico della repraesentatio “è utile per discernere ciò che costituisce la verità dell’esperienza ecclesiale nella storia, distinguendolo da quanto ne costituisce una forma di sterile autoritarismo ovvero una deriva corporativa e sindacale”.
Puoi aiutarci a capire meglio questo tuo pensiero?
In quel capitolo ho avuto di mira quelle che considero due opposte derive della vera concezione della prassi sinodale. Per un verso agisce infatti ancora in molti una concezione discendente dell’autorità: dal papa, ai vescovi, ai preti e infine ai laici. Dall’altra la crescita della consapevolezza dell’eguale dignità e responsabilità di tutti i credenti rischia di scivolare nella concezione “democratica”, validissima sul piano politico-civile, della delega dal basso, per cui il consenso ottenuto deve rispettare la volontà delle persone rappresentate e deleganti.
La grande tradizione conciliare, invece, espressa nel modo più maturo nei concili del Quattrocento, ha affidato l’origine dell’autorità dei sinodi al “mistero” della “repraesentatio” della chiesa (espressione che va tradotta non con “rappresentanza” ma con l’atto del “rendersi presente”).
Ogni concilio o sinodo “perfetto” (categoria antica che non equivale a “infallibile”) infatti “rende presente” la chiesa nella misura in cui Cristo stesso si rende presente mediante il suo Spirito quando due o tre si riuniscono nel suo nome (cf. Mt 18, 20: testo di riferimento tradizionale delle varie teologie conciliari, al di là del suo contesto originario).
Il consenso è quindi un evento che lo Spirito stesso crea quando esistono le condizioni, che non sono in primo luogo quelle giuridiche, ma quelle del comune ascolto sia dei presenti che della tradizione del Vangelo di Gesù (che il Sieben chiama rispettivamente ascolto orizzontale e verticale).
I meccanismi della “rappresentanza”, che sono anch’essi necessari e variano secondo le contingenze storiche, sono soltanto la condizione materiale esterna perché si verifichi l’evento del consenso, o della “sinfonia spirituale” (nome che in Oriente equivale a quello di consenso sinodale).
E la “sinfonia spirituale”, suscitata cioè dallo Spirito, trova poi la sua “conferma” e la sua “messa in sicurezza” (espressioni di papa Martino I nella lettera del 31 ottobre 649, a conclusione del sinodo Laterano) nella recezione comune del popolo di Dio.
Un sinodo è “perfetto”, quando esso dà luogo a tre “accordi”: quello con la tradizione viva del vangelo di tutti i tempi, quello tra i presenti, quello con la base ecclesiale che lo riceve e lo mette in pratica. Questa concezione non è quella che classifica l’autorità dei singoli sinodi o concili (i due termini si equivalgono) secondo il loro grado di “infallibilità”.
La discussione sulla “infallibilità” ha terribilmente distorto, a mio modesto avviso, il significato delle decisioni nella chiesa, a partire da un significato di “verità” che non è quello evangelico, ma quello filosofico della verità come corrispondenza tra il linguaggio e la realtà che il linguaggio vorrebbe tradurre.
La verità cristiana, almeno secondo il vangelo di Giovanni, è invece testimonianza del mistero del Padre e si oppone alla menzogna, che è un parlare a partire da sé (cf. Giov 8, 43-47). La verità di un sinodo sta cioè nella capacità di tradurre o meno il vangelo dell’amore del Padre del Messia Gesù nelle condizioni attuali della vicenda umana, di essere quindi testimone della verità nel senso in cui Gesù proclamò dinanzi a Pilato di essere venuto per testimoniare la verità.
A cura di Giampiero Forcesi
Redattore del sito web di “Costituzione Concilio Cittadinanza” (www.c3dem.it)
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[1] Ruggieri G., Chiesa sinodale, Editori Laterza, Bari 20172, pp. 280.
Si può dire che “la chiesa o tende ad essere tutta sinodale o non è”.
Ma per essere sinodale occorre una cultura sinodale.
Occorre anzitutto scoprire il valore del dialogo.
Ma chi è in autorità (o sta in servizio) ha generalmente poca confidenza con questo e chiama spesso dialogo un rapporto a percorso obbligato con risposta pure obbligata.
Chi non è in autorità troppo spesso cerca indicazioni dettagliate dai preti e dai vescovi.
La cultura sinodale non si inietta, non è una flebo. Occorre un lavoro comunitario paziente che crei un “clima” di partenza.