LITURGIA
VERSO UN JURASSIC PARK DEL RITO?
Andrea Grillo
Nella bella favola di Chistian Andersen, “I vestiti nuovi dell’Imperatore” la verità può emergere soltanto quando un bambino dichiara ingenuamente: “il re è nudo”. I molti condizionamenti, che nella favola impediscono agli adulti di “non vedere” i vestiti inesistenti del re, sono legati al timore di esporsi, alla paura di apparire sconvenienti e al terrore di non dimostrarsi all’altezza del proprio compito. Così Andersen.
La parresia censurata
Ma che cosa sta facendo, oggi, gran parte della compagine ecclesiale ufficiale, di fronte a documenti “nudi”, in altre parole discutibili dal punto di vista dei fondamenti giuridici, della pastorale e della praticabilità reale, come il Motu Proprio “Summorum Pontificum”[1] e l’Istruzione “Universae ecclesiae”[2]? Silenzio, complimenti, parole d’occasione e generiche virate al largo sono pressoché le uniche reazioni ritenute possibili. Se un Vescovo si azzarda a dire la verità o un teologo a ragionare su problemi obiettivi, subito scatta una sorta di censura preventiva, che accusa il soggetto di “essere contro l’imperatore”. Ogni “parresia” (parlare in libertà e con verità, ndr) viene bandita quando non esplicitamente censurata. E sembra quasi obbligatorio ripetere acriticamente una serie di affermazioni che appaiono profondamente dissonanti rispetto alla tradizione liturgica e teologica degli ultimi cinquant’anni.
Né dettaglio, né soprammobile
Non può esservi dubbio che la Riforma Liturgica non volesse essere un dettaglio marginale o un nuovo soprammobile per aggiungere alla storia della Chiesa un particolare non strettamente necessario. Viceversa, chiunque legga i documenti degli ultimi cinquant’anni, non stenta a percepire le ragioni di urgenza e di strategia che sovrintendono al bisogno di modificare profondamente i riti della Chiesa, per assicurare alla tradizione la possibilità di comunicare ancora. Affermare che la Riforma Liturgica non ha abrogato il rito di Pio V significa, nello stesso tempo, alterare il rapporto con la tradizione degli ultimi cinquant’anni e introdurre nella storia della Chiesa una forma di “comprensione monumentale” che rischia la completa paralisi del presente, quasi per un “eccesso di passato”. Per una tale operazione, occorreva adibire un supporto teorico robusto. Si intuiva, evidentemente, la fragilità della soluzione proposta. E si sapeva che tanto Paolo VI voleva sostituire il Vetus Ordo Missae con il Nuovo, quanto Giovanni XXIII aveva pensato il rito del 1962 come provvisorio, in attesa del Concilio Vaticano II e della conseguente Riforma Liturgica.
L’ingessatura del rito
Si presume di poter identificare la continuità del rito romano con la contemporaneità di diverse forme del medesimo rito, cioè il rito di Pio V e il messale della Riforma conciliare; una teoria assai azzardata e praticamente molto pericolosa. L’azzardo teorico consiste nel separare il rito romano dal suo concreto divenire, ipostatizzando fasi diverse della storia, rendendole tutte indifferentemente contemporanee. Sul piano pratico, questa soluzione di fatto supera ogni “certezza del rito”, introducendo un fattore di grande conflittualità all’interno delle singole comunità ecclesiali e impedendo ai Vescovi ogni vero discernimento.
La logica dei documenti – direi quasi la loro grammatica – tende a smentire il loro contenuto. Infatti, se è vero che sul piano del contenuto viene ribadito il primato del rito ordinario (di Paolo VI) rispetto al rito extraordinario (di Pio V), i documenti sono scritti nelle categorie di Pio V e non in quelle di Paolo VI: utilizzano, infatti, una gerarchia di priorità capovolta tra “messa senza popolo” e “messa con il popolo” che nessun documento usa più in questo modo, dal 1970 in poi.
Un’occasione mancata
Ma non basta. Come nella favola di Andersen, intorno al re ci sono non solo i sarti ingannatori, ma tanti altri soggetti, che, per non apparire stupidi, si lanciano in lodi sperticate del nuovo vestito: c’è chi dice che il Vetus Ordo sia l’ideale per il dialogo ecumenico, ma mentre dice questa enormità sente un forte calore arrossargli il viso e non capisce il perché; c’è chi dice che finalmente questi documenti attestano un vero stile cattolico, del quale si aspettava da tempo la manifestazione, anzi la fenomenologia, che ovviamente l’evidenza della fede e la giustizia di agape già sapevano da tempo.
Una buona occasione per accorgersi della realtà c’è stata: un vero bilancio era ipotizzabile alla fine del 2010, quando tutti i vescovi hanno riferito al Vaticano il frutto di questa esperienza triennale di applicazione del Motu Proprio. E’ stata una occasione mancata, sia per una forte reticenza dei vescovi, sia per l’interessata disattenzione di un settore oltranzista della Curia romana. Ne è scaturito un nuovo documento (l’Istruzione Universae ecclesiae) che è ancora peggio del Motu Proprio. E’ tuttavia evidente che il suo impianto teorico risulta ancora più fragile e ricco di equivoci. Può essere facilmente frainteso, quasi come fosse una sorta di “rivincita contro il Concilio”.
Il re è nudo
Di fronte a questi tentativi di mistificazione della tradizione liturgica, bisogna trovare la forza di dire: “Il re è nudo”. Dire questa cosa – con tutta la sua dose di critica ai documenti ufficiali cuciti da sarti illusionisti – è una possibilità per tutti i cristiani, ma è un compito per quei bambini che nella chiesa si chiamano “teologi”. Purtroppo i teologi spesso si sentono e si rivelano troppo adulti e hanno gli occhi subito pronti a vedere (o addirittura ad ammirare e a magnificare) vestiti che non ci sono. Mentre essi, per ministero, sono “obbligati” a restare bambini dagli occhi vispi, a dire la verità, senza tutte le mediazioni che vincolano altri ministeri a logiche necessariamente più complesse. Di questi bambini-teologi ha bisogno la Chiesa, per coltivare un’esperienza di comunione diversa da quella delle caserme o delle società per azioni, dove la critica al superiore è subito intesa come prova di eterodossia. Finché la Chiesa resterà diversa da queste organizzazioni, la voce dei bambini sarà salutare. Chi mai potrà avere interesse a farli tacere? O forse si penserà ai bambini soltanto per costruire una immensa “Jurassic Park” rituale, dove tutti – trattati come bambini – potranno “sentirsi a casa” al prezzo di perdere ogni senso della storia e della realtà?
Andrea Grillo
Professore Ordinario di Teologia Sacramentaria presso la Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo.
[pubblicato il 1° settembre 2011]
— — Note — — —
[1] La traduzione in italiano del Motu proprio si può consultare in http://passineldeserto.blogosfere.it/2007/07/summorum-pontificum-la-traduzione-in-italiano.html.
Il testo della lettera di Benedetto XVI ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio si può consultare in http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/letters/2007/documents/hf_ben-xvi_let_20070707_lettera-vescovi_it.html (ndr)
[2] La traduzione in italiano dell’Istruzione si può consultare in http://www.maranatha.it/news/20110513-01.htm#PONTIFICIA.
La nota redazionale accompagnatoria si trova in http://www.maranatha.it/news/20110513-01.htm#REDAZIONALE (ndr)
Intanto complimenti per questo ottimo sito, pregevole nella grafica e nei contenuti.
Vorrei aggiungere un commento allo stimolante articolo
del teologo Grillo.
Se il paradigma viene assolutizzato e il kerygma storicizzato e istituzionalizzato, la spinta utopica viene cristallizzata in ‘dogmi’ e la ‘speranza’ fa dietrofront per guardare il passato e solo quel passato che legittima il presente, perché meravigliarsi che la liturgia ufficiale assuma le sembianze della ritualizzazione dell’ideologia? Lex orandi lex credendi – ricorderà il Teologo Grillo – si può interpretare in due modi: quello consono al credente e orante (o orante e credente) e quello funzionale all’istituzione ecclesiastica e alla sua ‘ideologia’. Nulla di scandaloso, è sempre stato così in tutti i regimi. Le critiche che si fanno agli uomini politici potrebbero essere fatte anche alle gerarchie ecclesiastiche: l’essere così a lungo dententori del potere porta a perdere il contatto
con la realtà (politica o ecclesiale). Perché non istituire un incarico pro tempore per Papi e Vescovi? Così come la vita politica riceve benefici dall’alternanza, quella ecclesiastica riceverebbe dall’alteranza nuovo vigore, ne sono certo. E ciò che vengo scrivendo non è una eresia (se si parte solo dai testi sacri).
Concludo: la domanda più radicale è un’altra: è proprio necessaria l’adesione a una chiesa-regime per ‘salvarsi’? (ovviamente per ‘salvezza’ intendo qualcosa di più ampio rispetto alla ‘salus’ del vecchio e abusato assioma ‘extra ecclesiam nulla salus). O è sufficiente l’adesione al ‘vangelo’ e alle sue ‘verità’? L’adesione a uno stile di vita aperto alla
fede alla speranza e alla carità, ad una heideggeriana esistenza responsabile e autentica? Solo a queste condizioni il rito esce dal nietzscheano ‘eccesso di passato’, tenta di fare luce nella oscurità della nostra visione ‘per speculum et in aenigmate’, si apre e apre all’Essenziale’, al Fondamento del nostro esistere e del nostro sperare: in una parola, la nostra esistenza si fa preghiera e la nostra preghiera vita.
Mauro Nicolosi
Buenos Aires
Dunque, “noi non così”. Noi che pensiamo la centralità dell’eucaristia e che vediamo troppe persone presenti a un rito – per definizione catechistica – “cristiano”, ma che “converte” poco la vita. Noi che troppe volte facciamo meditazione individuale durante la messa senza vera partecipazione perché sentiamo di non essere dentro una comunità autentica.
Che cosa propone oggi sull’esperienza centrale della fede la chiesa al suo massimo livello? Potrà essere suggestivo per le centinaia di migliaia di ragazzi presenti alla Giornata mondiale della gioventù a Madrid vedere il Papa anziano restare – come nelle altre celebrazioni nei vari paesi del mondo – in ginocchio in lunga “adorazione” dell’Eucaristia. Forse la devozione alimenta piuttosto la religione che la fede: Gesù condivide un regno che non prevede umane regalità e umane sudditanze. Se, invece, i giovani dovessero sentirsi animati a leggere qualche testo ufficiale, potrebbero confermarsi non come cristiani adulti, consapevoli della presenza dello Spirito nel Vaticano II, ma come ignari veterocattolici, così devoti da lasciarsi imboccare davanti a un altare come bambini. Come cittadini non uscirebbero dal modello – mettiamo – del repubblicano americano medio, antiabortista e socialmente reazionario.
Gli scritti del Papa su Gesù inducono a ripercorrere strade ermeneuticamente senza sbocco: l’interpretazione dell’eucaristia come esclusivamente sacrificale riporta senza scampo a Trento e contrasta la gioia di una ritrovata resurrezione. Preoccupante, perché al tempo stesso il versante laico di mercato strumentalizza in tvi rosari di santi e pontefici e la moda storica dei Templari, non a caso prediletti dal nazi-assassino norvegese.
Non fu un caso che il Vaticano II avesse rilevato la grande importanza della liturgia, come coinvolgimento del bisogno umano di senso simbolico. Oggi tutte le liturgie risultano asfittiche per l’impossibilità di leggerne i segni. Le stesse riforme conciliari attuate – e oggi rimesse in discussione – dell’abbandono del latino o del riposizionamento dell’altare, a distanza di cinquant’anni, sembrano poca cosa per una partecipazione testimoniale veramente “eucaristica” per i credenti del terzo millennio. Che cosa fece Gesù la sera della Pasqua? perché mandò avanti due dei suoi per preparare una cena e non il rituale? perché lavò i piedi ai futuri apostoli se non perché tutti servissimo gli uni gli altri? Fece dono del suo corpo all’umanità, non di una particola e di un calice. Non si trovano nei Vangeli gli addetti al culto persuasi ad agire ‘in persona Christi’, perché tutti facciamo memoria di lui. Né mai il Maestro impose obbedienze “dovute”.
Il sacramento, infatti, si dà come dono e memoria esemplari: è perdono, gratuità, li-bertà, condivisione… affinché gli umani siano in grado di immettere nel mondo nonviolenza, pace, giustizia, mitezza, accoglienza allo straniero, salvaguardia del creato…
D’altra parte non è solo la chiesa cattolica a non accorgersi che un mondo sta crol-lando e che ne subentrerà un altro, migliore solo se non abbiamo paura di preparare un futuro necessariamente diverso, che nuovi segni dei tempi vengono prefigurando. Ma sarebbe grave per il cristianesimo di domani se la chiesa accettasse di tornare agli atti di culto formali compatibili con l’inosservanza privata dei precetti morali; se per la paura degli abbandoni rimuovesse le difficoltà e i dubbi del rinnovamento necessario; se continuasse ad interferire con la politica degli stati facendosi stato perfino con il richiamo dei nunzi quando i governi pretendono il rispetto della legalità laica e cercando – forse con l’aggravante della buona fede, come diceva don Milani – potere e Mammona.
L’ultimo documento del gruppo di Dombes prende le mosse dal Padre nostro (“Voi dunque pregate così”), la preghiera che trasforma i termini del modo di concepire la chiesa a seconda che il “nostro” sia inclusivo oppure esclusivo. Il documento tratta in particolare l’ecumenismo e giudica necessario rovesciare l’ordine delle identità confessionali, accettando la fine di un dialogo ormai impossibile se competitivo. “Osare dire ‘Padre nostro’ significa affermare una realtà nella fede, nella speranza, nella carità; ma è anche manifestare l’enorme mancanza della sua realizzazione nel nostro mondo e nella nostra storia…. La tensione fra il ‘già’ e il ‘non ancora’ dell’avvento del regno di Dio… rivela anche le insufficienze esistenziali e le nostre deviazioni ecclesiali in rapporto alle richieste di questa preghiera”. Sono parole forti che valgono per ogni significato di quella fede che si incentra nell’eucaristia.
Giancarla Codrignani