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Paul Klee, Polifonia (olio, 1932) - Museo d'arte di Berna

PER UNA SINODALITÀ ECCLESIALE DI BASE

Cesare Baldi

L’aria di “aggiornamento” che soffia nella chiesa cattolica, investita dalla volontà del papa di avviare un percorso sinodale a tutti i livelli, da quello universale a quello diocesano e parrocchiale, sembra evocare la tensione che c’era all’alba del Concilio Vaticano II. Le attese sono tante, anche perché la crisi che sta scuotendo la comunità cattolica è profonda e sistemica. Un’ombra pericolosa però sovrasta questo generale coinvolgimento del “popolo di Dio”: la disillusione. Dopo le delusioni per un processo di aggiornamento conciliare rimasto incompiuto, suscitare nuove aspettative rischia di provocare, se disattese, l’amara constatazione che l’istituzione ecclesiastica è refrattaria a qualsiasi rinnovamento.

Le riforme disinnescate sul nascere
In effetti, le diverse riforme avviate dal Concilio in direzione di un’ecclesiologia di comunione si sono spente sul nascere a causa di un “raffinato dispositivo di blocco”[1] messo in atto per disinnescarle. Facciamo alcuni esempi: la riforma missionaria, che all’inizio del Concilio prevedeva addirittura lo smantellamento di Propaganda fide, secondo la proposta avanzata da diversi vescovi delle ex-colonie africane, si è risolto in un nulla di fatto, con il suddetto dicastero che ha continuato imperterrito a pubblicare una “Guida alle missioni cattoliche”, intese come territori sotto la sua giurisdizione, senza tenere in alcun conto la nuova nozione di missione emersa dal dibattito conciliare.

La riforma liturgica, forse la più avanzata tra le riforme, ha rischiato di essere bloccata nel 2007 con il motu proprio Summorum Pontificum di papa Ratzinger, sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma conciliare, fortunatamente superato l’anno scorso dal motu proprio Traditines custodes di papa Francesco.

La riforma della catechesi, con il proliferare delle pubblicazioni, dal Documento base nel 1970 alla lettera della CEI “Annuncio e catechesi” nel 2010, sembra portare, piuttosto che un rinnovamento, all’estinguersi dell’utenza, soprattutto giovanile. Quanto poi alla carità, un’eventuale riforma non è neppure in agenda, perché di carità nella chiesa se ne fa tanta ma si studia poco, e per di più si fa sbrigativamente coincidere con la Caritas che, dal rinnovo dei suoi statuti nel 2012, il Vaticano ha progressivamente sottomesso alle proprie istanze interne e le conferenze episcopali sembrano chiamate a fare altrettanto.

Resta poi quella che potremmo definire la “madre di tutte le riforme”, quella della curia romana, di cui se ne parla dagli anni del Concilio, quando nel decreto Christus Dominus i padri esprimono il desiderio che i dicasteri “vengano riorganizzati in modo nuovo e conforme alle necessità dei tempi” (n. 9). Ma anche in questo caso la mina è disinnescata già nel 1988 con la costituzione Pastor bonus di papa Wojtyla, che accentua il primato petrino a scapito delle conferenze episcopali. D’altra parte questa riforma è ancora nell’agenda di papa Francesco e la attendiamo con fiducia.

Una “deriva gerarcologica”
Quel che rischia però maggiormente di provocare delusioni, mi sembra l’ambito ecclesiale locale, quello di base, del vissuto comune parrocchiale, dove si sente la necessità e l’urgenza di superare quella sorta di estraneità latente tra le diverse componenti della realtà ecclesiale.

È a questo livello che a mio parere occorre innescare un effettivo processo sinergico, pena la disillusione del popolo di Dio nei confronti dell’istituzione ecclesiastica: senza il recupero di una sinodalità ecclesiale di base, la deriva movimentista, corporativa e disgregativa della comunità ecclesiale sarà irreversibile.

Cosa intendo di preciso? Penso innanzitutto al rapporto tra il parroco e la sua comunità parrocchiale, com’è attualmente previsto dal codice di diritto canonico: l’attuale struttura non è affatto sinodale, ma dipende in larga misura da quella che la Commissione teologica internazionale (Cti) definisce “deriva gerarcologica”, in un documento sulla sinodalità del 2018, a proposito dei contraccolpi nella chiesa cattolica della riforma protestante[2].

Nonostante la dichiarazione del diritto canonico, che la parrocchia sia una “comunità di fedeli” (can. 515), il codice sancisce che l’unico rappresentante di detta comunità sia il parroco (can. 532), escludendo qualsiasi organismo rappresentativo o processo di acquisizione di tale rappresentatività, attribuitagli di fatto dalla nomina episcopale e acquisita al momento della “presa di possesso” della parrocchia (can. 527).

L’azienda-parrocchia
Insomma, nello stato attuale del diritto ecclesiastico latino, il parroco rappresenta tutti gli abitanti (battezzati) del territorio parrocchiale, che essi lo vogliano o meno, attraverso la semplice assunzione del ruolo di parroco. È dunque inevitabile che il rapporto che si instaura tra lui e i suoi parrocchiani sia un rapporto di forza, gerarchico e asimmetrico: nella logica consumistica, a cui siamo sempre più avvezzi, i fedeli sono i fruitori del servizio pastorale e il parroco il fornitore.

Questa logica è tutto fuorché sinodale, è la logica della prestazione di servizio, avallarla senza dibattito significa avallare la figura di un’azienda-parrocchia, in cui il parroco, di buon grado o meno, è costretto a svolgere la funzione manageriale di amministratore delegato, senza averne le competenze specifiche, anzi, con una formazione centrata sui contenuti delle verità da trasmettere e sullo spirito con cui testimoniarle, piuttosto che sui metodi e sulle forme con cui gestire l’azienda.

Attualmente quindi la struttura ecclesiale di base si configura come binomio asimmetrico parroco-fedeli piuttosto che comunità. La forma comunitaria, benché sancita dal codice, stenta a riconoscersi, non prende forma, se non attraverso la mediazione volenterosa e benemerita di parroci e fedeli, che cercano in qualche modo di supplire alle carenze del codice, promuovendo forme e organismi partecipativi efficaci, al di là delle indicazioni canoniche, fin dove e fin quando si riesce.

Dare soggettività giuridica alla comunità
In effetti, gli organi partecipativi previsti dal codice, chiamati a incarnare quella vocazione sinodale propria della realtà ecclesiale, sono irrilevanti, perché espressione della logica bipolare e con funzione semplicemente consultiva (can. 536, §2).

Fin tanto che il criterio di sinodalità non intaccherà la struttura ecclesiale di base, dando alla comunità di fedeli una soggettività giuridica propria, che attualmente non ha, non potremo parlare di una chiesa davvero sinodale.

Ora, cosa comporta dare soggettività giuridica alla comunità di fedeli? Innanzitutto disinnescare la deriva gerarcologica sottolineata dalla Cti, quella che in più occasioni papa Francesco definisce con il termine più generico di “clericalismo”, ma che non è solo un’attitudine interiore di clero e laici: occorre cioè destrutturare il binomio su cui si fonda l’attuale visione clericale della realtà parrocchiale.

In altre parole, si deve passare dalla visione societaria tradizionale, gerarchicamente strutturata, a quella comunitaria, fondata sull’appartenenza comune, la ministerialità dei suoi membri e la valorizzazione dei loro carismi.

È la comunità parrocchiale, nel suo insieme, a rivestire una soggettività giuridica, e non solo il parroco, ed essa è collegialmente rappresentata da un consiglio pastorale, eletto dai membri stessi della comunità.

Dare spazio effettivo all’esercizio della responsabilità ecclesiale
Per esprimere la propria responsabilità civile, il cittadino è chiamato ad esercitarla con il voto (oltre che facendo la spesa); quali forme assume l’esercizio della responsabilità ecclesiale per un fedele cattolico? Se vogliamo portare a compimento il processo innescato dall’ecclesiologia di comunione, occorre dare spazio effettivo all’esercizio della responsabilità ecclesiale di ciascun fedele.

Si potrà riaffermare così la coscienza di appartenere ad un’unica collettività, senza il bisogno di distinguersi e disgregarsi in comunità di scelta[3]. Sviluppare una sinodalità ecclesiale di base significherà così affermare che la comunità ecclesiale “è detentrice di diritto, anzi il vero soggetto, cui tutto il resto va posto in relazione” (Ratzinger 1970)[4].

Cesare Baldi
Presbitero della diocesi di Novara. Collabora con la Caritas diocesana di Novara.
Autore del volume Riunire i dispersi. Lineamenti di pastorale missionaria, tab edizioni, Roma 2021.

Note – – – – – – 
[1] Cf. A. Grillo, “Un’agenda per il futuro”, in Esodo 4/2021, p. 22.
[2] Cf. CTI, La sinodalità nella vita è nella missione della chiesa, Roma 2018, n. 35.
[3] Cf. F. G. Brambilla, “La parrocchia del futuro. Istantanee di una transizione”, in Il Regno-attualità 16 (2001), p. 562.
[4] J. Ratzinger, La democrazia nella chiesa, Queriniana, Brescia 2005, p. 44.

[pubblicato il 19 marzo 2022]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: https://www.rozmilla.wordpress.com]

1 Commento su “PER UNA SINODALITÀ ECCLESIALE DI BASE”

  1. Ottimi spunti su cui lavorare per rivitalizzare la comunità dei fedeli ormai quasi rassegnata ad un inesorabile declino.
    Si potrebbe continuare con argomenti che, pur esulando strettamente dall’ambito religioso, possano coinvolgere e sollecitare maggiormente i parrocchiani ad assumersi degli impegni.
    Questo a maggior ragione andrebbe fatto per i giovani.

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