COM’È PROFONDO IL MARE: RIFLESSIONI A PARTIRE DAGLI IMMIGRATI
Fabrizio Filiberti
Il riferimento è alla posizione assunta dal governo sulla gestione degli immigrati. Non si tratta di prendere posizione in modo “partitico”, cioè dalla propria presunta “parte”, perché la questione riguarda oltre alla prassi politica da adottare, l’atteggiamento morale e perfino religioso, cioè la dignità dell’umano in gioco.
Vorrei gettare – accanto a provocazioni più autorevoli (Zanotelli, Ciotti, Bettazzi, Papa Francesco) un ulteriore sasso nelle nostre comunità perché ciascuno possa riflettere e farsene un’opinione. Prendo spunto dai fatti recenti, ma il problema è, come evidente, più ampio.
La forzatura per porre un problema
Sul piano politico, la forzatura del governo – anche rispetto ai trattati e alle norme marittime ecc. – tende a sollevare il problema della compartecipazione dei paesi europei. Accogliere i migranti raccolti dalle navi italiane e non permettere l’attracco di quelle battenti bandiera straniera, vorrebbe indurre ad un coinvolgimento di quelle nazioni.
Al di là della legittimità giuridica, la decisione ha in sé una logica giustificata dalla forzatura che si vuole ottenere davanti alla incapacità dell’Europa di gestire la redistribuzione per altre vie (vedasi il rifiuto dei paesi dell’Est Europa e l’implosione dell’Unione nel “volontarismo” sancito nel recente summit europeo).
La questione Ong
Contemporaneamente, si pone il problema della trasparenza dell’azione di alcune Ong che gestiscono le navi di salvataggio. Fermo restando che non ci sono prove evidenti di comportamenti illeciti, non è da escludere che alcune azioni a fine umanitario possano in realtà alimentare il commercio di persone, sostenere le finalità perverse degli scafisti. Azioni buone non sempre producono effetti buoni e desiderati.
Fatta salva la presunta innocenza, non è fuori luogo andare a verificare anche lì il rispetto delle normative che regolano l’attività marittima, le responsabilità di bandiera, i finanziamenti, i profitti che ruotano attorno alla gestione dei migranti (G. Gaber, già parlava in una sua canzone del “potere dei più buoni” allorché la solidarietà si fa commercio).
Che l’iniziativa privata volontaria anticipi di solito l’attività pubblica e la solleciti è una cosa; altro è lasciare spazio indiscriminato a soggetti privati di fronte ad un problema epocale come quello dei migranti e rifugiati: è un atto perfino irresponsabile da parte delle Istituzioni. Il profilarsi di una stabile polizia del mare europea, di cui si inizia a parlare, potrebbe essere un passo avanti nella regolamentazione.
L’ideale europeo smantellato
L’effetto anti-solidale che gli stati europei mostrano, anche in coloro che molto hanno fatto ma dosando gli interventi entro limiti utilitaristici selettivi, non nasce dal nulla. È il risultato di decenni di de-europeizzazione, di smantellamento dell’ideale europeo che invece cercava spazi solidi al tempo dell’elaborazione della Costituzione Europea (fallita), premessa per un maggiore ruolo politico e decisionale del Parlamento ancora troppo ininfluente sulla Commissione Europea di nomina politica.
I rigurgiti nazionalistici di fronte ai costi della globalizzazione hanno indotto nell’opinione pubblica un sospetto anche su quanto di buono l’Europa si è data.
Soprattutto, in una correlazione tra causa ed effetto, i politici europei di questi stessi decenni (peraltro, alcuni ancora influenti) hanno piegato le loro decisioni agli interessi nazionali (se non di parte), a contenere contabilmente disavanzi degli stati membri incapaci di riforme adeguate al paradigma globale, con strumenti finanziari rigidi, tanto efficaci quanto percepiti come impopolari, dando l’impressione, anche quando non vero, di essere una “casta” autoreferenziale, sganciata dalla vita di tutti.
Una politica “machiavellica”
Il problema dell’immigrazione e dei rifugiati, effetto non inatteso e quindi irresponsabilmente sottovalutato, è divenuto solo il fenomeno che costringe a fare i conti con le mancate politiche globali e il banco di prova della capacità di affrontare in modo adeguato i sempre più complessi problemi (per chiunque debba governarli).
A fronte di ciò, ogni parvenza di risultato immediato che sembri dare respiro – compreso quello operato dal passato governo in relazione ai migranti provenienti dalla Libia – viene ben accolto dalla gente, costi quel che costi. È proprio sul piano della dignità umana che s’evidenzia l’impatto di questa politica “machiavellica” dove il fine giustifica i mezzi, dove l’efficacia non assume i costi umani e sociali.
Vediamo come un’accusa morale al governo, sollevata da più parti e in sé condivisibile, non è raccolta dalla coscienza generale, sensibile anche al piano della gestione politica immediata.
Il metodo di forzare le regole, di imporsi con voce grossa, di portare le circostanze al punto estremo, è ritenuta via più efficace per i risultati che si vogliono perseguire e risponde alla vera (talvolta) o presunta (spesso) situazione d’emergenza nelle nostre città.
Il mutamento antropologico
Questo è dunque il tempo nel quale, forse, ci si rende conto – e parlo a partire dai credenti, dai molti cristiani i quali, in forza delle statistiche elettorali, appartengono ai sostenitori di quelle politiche – che stiamo facendo i conti con una deriva che tocca il senso profondo del nostro vivere, etico e religioso.
I fenomeni politici attuali lasciano emergere l’imporsi nelle coscienze di qualcosa che va oltre la superficiale accusa di “razzismo”, “opportunismo”, “egoismo”: di fronte a reali situazioni di disagio, di perdita di sicurezza “percepita”, sono accuse non ricevute. Conosciamo tutti persone che, pur sostenendo quelle politiche, non sono certo catalogabili come razzisti ecc.
C’è ovviamente qualcosa di più e di più profondo.
È l’antropologia che ci connota che viene a manifestarsi e dalla quale dipende l’istanza morale che si plasma in noi.
Il limite di pensarsi individualisticamente
Sinteticamente, appare la preminenza di chi si pensa individualmente: il Medesimo, come lo chiama E. Lévinas. È colui che partendo dalla visione e dai valori che sorreggono l’individualità, i propri interessi (in senso buono: vita, prosperità, identità culturale) per sé e i propri prossimi, vicini, costruisce un sistema di vita sociale con al centro la loro tutela (soggettiva o nazionale).
Lévinas denuncia come questa dimensione “naturale” è quella che domina la storia, in fondo perché è “giusta” in rapporto a se stessi, compatibile con un mondo in cui ciascuno è quello che è, a ciascuno spetta ciò che gli è proprio, in cui la propria libertà si spinge fino al non toccare quella degli altri, e viceversa (ovviamente il migrante tocca la mia libertà, vita e proprietà, e per questo esorbita da “casa sua”).
A fronte del Medesimo, Lévinas traccia l’identità dell’uomo che esiste solo in quanto potremmo dire Aperto all’alterità, all’altro: colui che non è Me ma Mi definisce nell’incontro nel quale faccio esperienza. A fronte di un mondo di confini e di muri, l’esperienza umana è cresciuta infatti attraverso un mondo di relazioni e meticciato.
Tutti siamo esseri di bisogno
Senza entrare in particolari, la domanda di fondo è: cosa mi definisce? Cosa dice veramente chi sono? È l’incontro con la diversità, con ciò che è diverso da me a permettermi di conoscere, insieme, me e l’altro, ciò che accomuna e distingue.
Ma cosa ci accomuna a livello profondo, quando arriviamo a cogliere le esperienze ultime, cioè non più legate a interessi legittimi ma contingenti? Risposta: tutti siamo esseri-di-bisogno, soggetti che hanno bisogno per essere e esistere del riconoscimento da parte di altri.
Con un’immagine potentissima, Lévinas parla dell’incontro con il Volto dell’altro: è quando lo vediamo non per i suoi connotati (bianco, nero, europeo, africano, italiano, migrante, simpatico o antipatico, ecc.) ma quando lo sentiamo nel suo Volto, che è la sua nudità, la sua povertà come-essere-che-ha-bisogno-di-me-per-essere, allora io sono colui che deve rispondere, cioè agire con quella dimensione della mia libertà che è la responsabilità (da respondeo, rispondere).
Io sono la risposta all’altro.
Occorre uscire da un cortocircuito
La società allora non sarà tanto la somma di individualità che devono trovare modalità non conflittuali per coesistere (col mito, magari, del “ciascuno a casa sua”), ma sarà la continua sfida della costruzione di relazioni di reciproco riconoscimento del nostro essere-che-ha-bisogno. La politica ha in ciò un compito essenziale. Una politica che esca dal cortocircuito del Medesimo, singolo o paese.
Non bisogna andare molto lontano per cogliere questo, non occorre fare i filosofi: basta rileggere la parabola del Buon Samaritano (Lc 10). La sua compassione per l’altro-da-sé, quel giudeo nemico ma ferito incontrato sulla strada, è quanto l’ha mosso a “farsi prossimo” a colui che naturalmente (nell’ottica del Medesimo) non lo era affatto.
Non esiste il “mio” prossimo; esisto io che mi scopro “prossimo” di coloro ai quali rispondo in libertà. Questo atteggiamento non è per natura, è frutto di educazione e santità. Su quei barconi e nel profondo del mare possiamo vederci così individui astratti, senza volto, anonimi, casuali, poveri scarti del mondo, oppure potenziali prossimi, nuovi fratelli ai quali dare o meno risposta.
Fabrizio Filiberti
Presidente di “Città di Dio” Associazione ecumenica di cultura religiosa – Invorio (NO). L’Associazione “Città di Dio” aderisce alla Rete dei Viandanti.
Membro del Gruppo di riflessione e proposta (Grp) dell’Associazione Viandanti.
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Sul tema nel sito si può leggere anche:
– -, “Sono forse io il guardiano di mio fratello?”
– -, Omissione di soccorso (Zanotelli, Bettazzi, Ciotti)
Virgili R., A bordo dell’Aquarius c’è anche Paolo di Tarso
Interessante risentire Lèvinas, applicato ai migranti.Mi ha fatto bene.
Mi piacerebbe che qualcuno facesse arrivare (io non lo so fare, sono così poco tecnologica…!) a Salvini (la sua voce oggi fa coscienza per molti) qs articolo e sentire le sue risonanze morali, religose e politiche.
Grazie…Liana