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ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
CAMMINARE, VERSO DOVE?

Marco Bertè

 Nel cammino verso la nostra Assemblea soci, che si terrà il 30 novembre, pubblicheremo a puntate le riflessioni, o meglio la lunga meditazione sull’essere viandanti, che Marco Bertè ci ha donato con questa dedica: “Una meditazione dedicata agli amici dell’Associazione Viandanti, con il piacere di ricordare un’idea e un’amicizia”. Una preparazione remota della quale ringraziamo molto Marco. [V]

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Essere viandanti… Certo che lo siamo! Siamo tutti viandanti, da quando, ancora piccini, abbiamo imparato a camminare. Trovando altri sul cammino ci siamo conosciuti, a volte riconosciuti, e abbiamo chiesto: dove vai? dove andate? Quasi sempre ci hanno risposto e anche noi abbiamo cercato di rispondere alle stesse domande.

Ecco: proprio sapevamo dove eravamo e dove andavamo e che cosa cercavamo? Non sempre, non proprio. La domanda che tutte le raccoglie è: verso dove? Verso dove camminiamo? Verso tempi e luoghi lontani, donde ci raggiunge una voce che ci chiama a mondi sconosciuti? O camminiamo forse, senza rendercene conto, verso noi stessi? O, infine, non v’è un dove verso cui camminiamo, giacché il camminare ha il fine in se stesso? Si cammina per camminare.

Non è facile rispondere. La questione deve rimanere aperta. Una via da percorrere, forse, è indicata da quella che chiamiamo “implicazione originaria”. La implicazione, cioè, nata con noi e che rimane in noi, dal primo vagito all’ultimo respiro, di Sé e dell’Altro da Sé, per cui possiamo concepire un Sé solo in relazione ad un Altro da Sé e un Altro da Sé solo in relazione ad un Sé.

Non c’è l’uno senza l’altro, l’uno implica sempre l’altro. Solo così si può immaginare una qualche risposta al nostro domandare. Al quale comunque, qui, si cerca di rispondere con questo scritto, nato dal bisogno e dal piacere di ricordare un’idea e un’amicizia. E ruota attorno ad alcune figure di viandanti, soprattutto quelle di Abramo, di Giacobbe, di Giobbe e del Gesù terreno dei Vangeli.

L’esperienza del camminare
Chi cammina, si muove. Cominciando a camminare l’intero organismo entra in movimento. E l’intera sensibilità corporea. Inizia così il piacere di andare. E inizia anche la fatica, per quanto piccola, per quanto scarsamente avvertita. Ma può diventare importante, soprattutto accelerando l’andatura, quando chi cammina è avanti, molto avanti negli anni e ne porta il segno alle mani, ai piedi, alle gambe, alle anche, alla schiena. Ma sente egualmente il piacere e la voglia di andare. E cerca di accordare il cammino con il respiro, magari contando i passi e fermandosi ogni tanto.

Tutti però, giovani e vecchi, nel pieno del vigore o attardati dagli acciacchi, camminando percepiscono il proprio corpo con una vivacità e precisione che non hanno quando stanno fermi. E si ridestano i sensi, prima quasi dormienti. Col procedere l’occhio si ravviva posandosi su ciò che sta intorno e che si rinnova ad ogni passo, erbe o sassi, prati o boschi, pianure o montagne, case o paesi.

L’udito si fa attento ai più leggeri fremiti della natura, al canto degli uccelli, alle grida dei bimbi, al vociare delle persone, ai rumori della campagna o della città. L’odorato assapora i profumi dell’erba e delle piante, a volte trasale a fragranze che vengono dalle cucine. Anche il tatto si ridesta, quando la brezza accarezza la pelle o il sole la riscalda.

Scopo del camminare è il camminare stesso. Scopo autentico del camminare non è la meta, il punto di arrivo, ma l’esperienza del camminare. Eppure dobbiamo chiederci: donde viene questo piacere? non c’è, in questo andare, qualcosa di nascosto? qualcosa che ci chiama? un impulso segreto?  E soprattutto: come chiameremo colui che cammina solo per il piacere di camminare? Lo chiameremo viandante. Viandante è colui che è connotato solo dal fatto di andare sulla via, di camminare lungo la strada.

Abitare la strada
Viandante è definito solo ed esclusivamente dall’andare camminando e percorrendo vie e strade. Non dalla meta, non da qualche opera da intraprendere. Cosa fa allora? Cosa cerca? Ma con che cosa ha a che fare andando e camminando? Ha a che fare con tutto quanto gli si offre sulla via, lungo la strada: luoghi, persone, situazioni, avventure. Il viandante attraversa luoghi, incontra persone, si immerge in situazioni, affronta avventure. E va e cammina. E da tutto e da tutti è messo alla prova.

Attraversa luoghi – prati e boschi, paesi e città – vi sosta un poco, ne assapora l’atmosfera e li lascia alle spalle. Incontra persone – grandi e piccoli, uomini e donne, abitanti dei luoghi e altri viandanti – si intrattiene e dialoga con loro, a volte si accompagna a qualcuno per un tratto di cammino, ma ben presto saluta e procede oltre. Si immerge in situazioni – prova emozioni, gioie e paure, sorpresa e meraviglia, riconoscimenti e scoperte, distacchi e coinvolgimenti – le vive con intensità e subito però si volge ad altro senza mai indugiare troppo.

E così, allo stesso modo, affronta avventure – pericoli minacce e insidie ma anche nuovi orizzonti e aperture imprevedibili – le supera e si dispone di nuovo a camminare verso l’ignoto. Tutto ciò che attraversa, che incontra, in cui s’immerge e che affronta – e che poi lascia – si sedimenta nel suo animo e diventa materia di narrazione. Nelle soste del suo andare, nelle sere in cui si riposa dal camminare, incontrandosi con gli abitanti dei luoghi e con altri viandanti, si intrecciano i racconti.

Si forma così il mondo del viandante. Si forma e trasforma continuamente. Il continuo formarsi e trasformarsi del viandante e del suo mondo fanno del camminare un segno del divenire, del continuo mutarsi d’ogni cosa, del trascorrere dei tempi e degli spazi. Camminando viviamo e riviviamo continuamente lo sfumare delle ore una nell’altra, l’avvicendarsi e ripetersi delle stagioni, il fuggire degli anni e il depositarsi dei ricordi. E sperimentiamo, assieme, il mutare degli spazi, il venir meno e ritornare dei luoghi, dei paesaggi, delle visioni care al nostro animo.

Che cosa cerca il viandante? Che cosa lo spinge a diventare viandante e a che cosa tende il suo continuare a esserlo? Non è facile rispondere. La prima ipotesi che viene in mente è che forse non c’è nulla al di là del suo andare e camminare, né prima né poi, né all’inizio né alla fine. Forse il piacere più profondo e il più alto dovere è per il viandante andare e camminare, abitare la via, frequentare la strada.

Sono molte le figure di viandante che possono aiutarci a capire. Proviamo a interrogarne qualcuna.

Verso se stessi e verso l’altro
La figura più evidente dell’andare del viandante è la vita stessa dell’uomo. Non è forse la vita dell’uomo un continuo andare e camminare, attraversare luoghi, incontrare persone, immergersi in situazioni, affrontare avventure e continuamente rivivere e raccontare tutto questo, formando e trasformando mondi, formando e trasformando se stessi? E non è forse il vivere, il desiderio e il coraggio di vivere, la speranza e la forza di vivere ciò che lo fa diventare ed essere uomo? Non è l’amore alla vita e la fede nella vita che lo sostiene continuamente? La vita ha in se stessa la propria origine e il proprio scopo. Ecco allora: è qui il segreto del viandante, del suo andare e camminare?

Il vivere è figura dell’andare del viandante e questo è figura di quello. In entrambi si formano e trasformano mondi, formando e trasformando se stessi. Entrambi evocano il cammino dell’uomo: il cammino che l’uomo percorre verso se stesso e verso l’altro da sé. Che è, in definitiva, l’itinerario formativo dell’uomo, il compiersi della sua educazione.

Sul cammino dell’uomo come itinerario formativo, si sofferma Martin Buber in un prezioso libriccino, Il cammino dell’uomo secondo l’insegnamento chassidico. Ogni uomo, dice Buber, ha un cammino proprio da percorrere che è unico, del tutto personale. Per individuarlo ed intraprenderlo è necessario prendere coscienza di sé e della situazione in cui ci si trova, di ciò che si è e di ciò che si deve diventare, volgersi a Dio e convertirsi. È necessario capire quale sia la propria tendenza essenziale ed il proprio desiderio fondamentale, assecondarli e indirizzarli a ciò che ci colma più di ogni altra cosa.

Adottata questa direzione, raccogliere attorno ad essa tutte le nostre energie, procedendo con risolutezza dalla scissione all’unificazione, e così trasformare noi stessi e le relazioni che abbiamo. Il lavoro di unificazione e trasformazione personale non deve chiuderci, ma darci la forza di aprirci agli altri, accoglierli, entrare in relazione con loro, dedicarci al mondo ed all’opera che dobbiamo compiere nel mondo e cui Dio ci ha destinati. Ed avendo ben presente che il luogo in cui siamo chiamati ad operare è il luogo in cui ci troviamo e le persone e realtà che siamo chiamati ad incontrare sono quelle che effettivamente incontriamo nella esistenza quotidiana. È lì, nelle situazioni che viviamo, che dobbiamo lasciare entrare Dio. Lì e così si compie il nostro cammino.

Fin qui l’insegnamento di Buber. Anch’esso pone l’accento sul cammino che l’uomo percorre verso se stesso e verso l’altro da sé, quando sottolinea, da una parte, la sua tendenza essenziale e il suo desiderio fondamentale e, dall’altra, l’opera che deve compiere nel mondo. Ma c’è in questo scritto qualcosa di più, che avvicina l’itinerario formativo all’andare del viandante: il ripresentarsi continuo e mai esaurito dell’opera da intraprendere, – giacché il luogo in cui siamo chiamati ad operare e le persone che siamo chiamati ad incontrare si rinnovano continuamente. Come nell’andare del viandante non c’è mai una meta ultima, che concluda definitivamente il nostro cammino.

La variante del viaggio
Una variante di questo itinerario è quella del viaggio. Ne propone un’analisi suggestiva Maria Teresa Moscato nel volume Il viaggio come metafora pedagogica, che in parte ispira queste pagine. Il viaggio costituisce una esperienza formativa autentica, ma per lo più è considerato una metafora della formazione particolarmente significativa. Son da ricordare, anzitutto, i viaggi di formazione (come il Guglielmo Meister di Goethe), le fiabe ed i racconti per ragazzi (come Pinocchio o, al limite, Cappuccetto Rosso), le storie di vocazione (come quella straordinaria di Abramo) o, ancora, le epopee degli eroi fondatori (come Enea).

La formazione avviene secondo uno schema che comprende l’allontanamento da un luogo d’origine, la condizione di straniero o di pellegrino, diverse avventure, tra cui spesso l’attraversamento di luoghi irti di difficoltà e di pericoli (boschi e foreste impenetrabili, deserti, mari in tempesta, montagne impervie), il superamento di prove terribili (lotte con nemici irriducibili, con animali feroci, con fenomeni naturali misteriosi), la conquista di una più autentica identità personale e, con essa, il raggiungimento d’una terra promessa o l’agognato ritorno a casa, al luogo d’origine.

Il viaggio dei Magi
Merita una menzione particolare un viaggio piuttosto singolare, quello dei Magi, di cui parlano i Vangeli. Lo schema è un po’ diverso. All’origine vi è la stella e la decisione di seguirla. Che cosa sia o rappresenti questa stella non ci è dato sapere. Certamente è un simbolo. Si direbbe il simbolo di una chiamata, di una vocazione che si ripropone sempre di nuovo, fino a scendere sulla grotta del Bambino.

Ma anche qui, come vedremo, la chiamata non si estingue. I Magi provengono da regioni lontane, lontane da Betlemme e lontane tra loro. E da tradizioni religiose dell’Oriente. Dobbiamo perciò supporre che abbiano percorso la prima parte del cammino individualmente, ognuno per strade diverse. A un certo punto devono essersi incontrati, essersi comunicati l’un l’altro la rivelazione ricevuta e l’esperienza fatta, avere deciso di continuare assieme il viaggio.

Finalmente, dopo varie vicissitudini, raggiungono la grotta, trovano e adorano il bambino, offrono i loro doni. L’esperienza che fanno è straordinaria. È un incontro che li trasforma e li segnerà per tutta la vita. E si accingono a tornare sui loro passi. Ma sono sospinti dall’esperienza che hanno fatto.

La risposta ad una vocazione
Al richiamo della stella subentra un richiamo più profondo, proveniente dall’incontro col Bambino, che li orienta al di là delle loro tradizioni religiose. Dapprima camminano ancora assieme, meditano quello che hanno vissuto, lo rievocano raccontandosi e riraccontandosi l’un l’altro le impressioni provate.

Poi, finalmente, si separano e si dirigono ognuno verso il luogo d’origine. Ma qui, è possibile supporre, non sono accolti bene. La loro presumibile trasformazione religiosa non può essere compresa. I magi si ritrovano stranieri in patria. E cercano e cercheranno ripetutamente, continuamente, di evangelizzare le loro terre.

L’itinerario formativo, in questo caso, avviene attraverso la risposta ad una vocazione, l’incontro ed il dialogo, la trasformazione della persona, il ritorno ai luoghi d’origine, l’amarezza di non essere compresi ed accolti dagli amici d’un tempo, i reiterati tentativi di farli partecipare alla propria trasformazione. In un processo probabilmente interminabile e interminato. Come l’andare del viandante.

Un’implicazione che trasforma
Se consideriamo queste prime figure dell’andare del viandante – la vita stessa, l’itinerario formativo proposto da Buber, il viaggio (in particolare quello dei Magi) – ciò che si impone è un andare verso una Alterità (Altro o altri) che si sposta sempre più in là, non è mai raggiunta, si rinnova continuamente. E continuamente, però, chiama, chiede ascolto e obbedienza.

Una situazione diversa, che richiama di nuovo l’implicazione tra sé e l’altro da sé, si ha con gli stranieri, soprattutto migranti. L’altro allora si presenta, ad un tempo, come minaccia e dono. «Sempre minaccia e dono – non l’una cosa o l’altra. Anzi, l’una cosa proprio in quanto è l’altra». «E’ un altro, che tuttavia appartiene alla mia identità” (U. Curi, Straniero). E mentre si ritrae perché non possiamo disporne, ci viene incontro per misurarsi con noi. E ci costringe a interrogarci su di lui e su noi stessi.

Il “chi sei tu?” diventa ben presto il “chi sono io?”. «Grazie allo straniero noi siamo portati a domandarci chi siamo, cosa vogliamo, da dove veniamo. Siamo anche portati a trasformarci» (B. Spinelli, Ricordati che eri straniero). Ecco dunque la notata implicazione tra il volgersi all’altro ed il volgersi a sé.

Marco Bertè
Socio fondatore di Viandanti e membro del gruppo “Oggi la Chiesa” (Parma) che aderisce alla Rete dei Viandanti.
[Parte prima]

– – Nota – – – –
Questo editoriale è tratto da un testo più ampio intitolato, Essere, diventare viandanti. Verso dove? La versione integrale, in cartaceo, verrà consegnata ai partecipanti della prossima Assemblea dei soci di “Viandanti” (Parma, 30 novembre 2024).

[Pubblicato il 10.8.2024]
[L’immagine di Melanie Dretvic, che correda l’articolo, è ripresa dal sito: https://comune-info.net]

3 Commenti su “ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
CAMMINARE, VERSO DOVE?”

  1. Pellegrinare, andare, non è una scelta ma un’imposizione dell’esistere perché ogni realtà è dentro il tempo (a-priori) ed il tempo non consente soste: trascina ogni realtà verso un domani da nessuno conoscibile, neppure un attimo dopo l’attimo del presente. Questo dover andare senza saper bene dove, trova risposte solo nella fede, tanto che, secondo me, il divenire, il pellegrinare, impone la ricerca di un dio, un dio molto spesso identificato con la propria felicità (potere, danaro, successo, ecc.).

  2. Mi ha coinvolto profondamente il proverbio orientale che dice: “Se vuoi tracciare diritto il tuo solco, punta l’aratro verso una stella” . Per noi che siamo stati sedotti da Gesù di Nazareth questa stella é il Regno di figliolanza e di fratellanza. Per i diversamente credenti può essere il proprio impulso, il proprio desiderio più profondo. Personalmente da tempo la ritrovo magnificamente rappresentata pittoricamente e simbolicamente nell’Icona della Trinità di Rubliev in cui questa stella, questo Regno, questo impulso interiore, vengono presentati come una Comunione Universale e Cosmica. Ne porto una immaginetta nel mio portafogli…ed una anche sul dorso del cellulare… Basta un fugace sguardo di tanto in tanto, come farebbe il marinaio con la sua bussola o meglio ancora come farebbe l’innamorato con la foto della sua amata per farmi sentire più leggero, più motivato, più coinvolto e più gioioso nel mio andare.

  3. Si comincia ad andare quando si nasce e si va si va si va non importa dove. Il fine è proprio l’andare. Andare per andare. Sino alla fine

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