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Pedro Ramírez Vázquez, Monumento a p. Antonio de Montesinos (1982), Santo Domingo (Chotez.blogspot.com).
Pedro Ramírez Vázquez, Monumento a p. Antonio de Montesinos (1982), Santo Domingo

OPINIONE PUBBLICA NELLA CHIESA:
METTERSI ALLA PROVA

Alberto B. Simoni

Quando si parla di opinione pubblica nella chiesa, i modi di intenderla possono essere i più controversi. Se rimaniamo al senso immediato, si pensa a forme di consenso passivo rispetto alle indicazioni e posizioni espresse dall’alto: qualcosa di già fatto che dà l’immagine di una chiesa monolitica e bloccata. Oppure, per contrasto, si pensa ad una opinione pubblica che manca, in quanto non c’è alcun riconoscimento alla libertà di discernimento critico da parte di soggetti che non siano quelli dell’apparato; o in quanto fa difetto un coordinamento unitario tra le tante voci che si fanno sentire.
Senza sottovalutare il primo modo di intenderla – che sarebbe da rimuovere – è chiaro che l’attenzione si porta sul secondo aspetto, che sollecita ad uscire da ogni forma di acquiescenzae a farsi carico di un’opinione pubblica nella chiesa che sia tale e che già Pio XII invocava nel 1950, dicendo: “Essa – la Chiesa – è un corpo vivo cui mancherebbe qualcosa alla propria vita, se le facesse difetto l’opinione pubblica, difetto il cui biasimo ricadrebbe sui pastori o sui fedeli”.

Una responsabilità trasversale
C’è dunque una responsabilità trasversale a dare vita ad una comunicazione interna alla comunità cristiana, che non si contenti di rivendicare il diritto alla parola nei confronti di chi si guarda bene dal riconoscerlo,ma lo sappia assumere ed esercitare in proprio nel rispetto delle esigenze di verità e di comunione che sono a carico di tutti.
Il problema vero, dunque, sta nella capacità o meno dei tanti soggetti che nascono e che agiscono alla base della chiesa ad essere soggetto unitario e a dare vita e forma ad un modo di pensare e di porsi veramente rappresentativo non solo di se stessi e della propria singolarità ma di una coscienza di chiesa che equivalga e, se necessario, sfidi quella di quanti ne rivendicano l’esclusiva. San Paolo ce ne dà l’esempio: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro” (2Cor 11,23).

Un sentire condiviso che nasca dal confronto
Il banco di prova è il “sentire cum ecclesia”, che non è appannaggio di chi si insedia in cattedra come paladino di ortodossia, né di chi si appella alla pura prassi storica, ma di chi soffre insieme per il vangelo (cfr 2Tm 1,8): un sentire condiviso che era sembrato prevalere sull’onda del Vaticano II, ma che si è affievolito col venir meno della sua spinta propulsiva, per lasciarci nel guado di un aggiornamento, che richiederebbe una maturazione organica e contestuale del “corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Ora, quanto manca di quel clima può rinascere per via di convinzione, in vista di una comunicazione aperta tra quanti hanno a cuore le sorti della fede nel mondo e nella storia. Perché non c’è opinione pubblica nella chiesa, se non in funzione di quel “sensus fidei” che la sostanzia.

Rilanciare il dibattito e la dialettica
Essa, infatti, non consiste nel ritagliarsi spazi di libertà di parola, ma nella responsabilità di esercitarla a vantaggio dei più: una responsabilità che investe più che mai chi avverte il bisogno di una comunicazione della fede che sia plausibile ad extra e non si esaurisca in uno sterile confronto ad intra.
Sono chiamati in causa quanti sono portatori dell’istanza di aggiornamento che viene dal Concilio e che rimane valida per rilanciare un dibattito ed una dialettica sopiti o finiti nei vicoli ciechi della propria auto-gratificazione o auto-glorificazione. Chi ha a cuore l’opinione pubblica nella chiesa, bisogna che se ne assuma il peso e ne accetti la disciplina, perché non si tratta di semplice esternazione su questo o quel punto, ma di ascoltare ciò che lo Spirito dice alle chiese.

Non esternazioni, ma approccio sistemico ai problemi
Forse si potrebbe mutuare in chiave ecclesiale un’analisi sociologica di G. De Rita sul dopo-referendum, quando dice: «Nella triade “venti di opinione, approccio sistemico e responsabilità politica” proprio il termine di mezzo, quello più importante e decisivo, sembra essere sacrificato, con un pericoloso tradimento dei problemi da risolvere» (Corriere della sera, 29 giugno 2011).
In altre parole, neanche nella chiesa l’opinione pubblica può essere una variabile indipendente e magari prestarsi al conformismo che vuole combattere; deve invece sapersi coordinare al processo di sviluppo complessivo di riforma nel segno della corresponsabilità. Altrimenti potrebbe diventare un’arma a doppio taglio e, come succede spesso in politica, fare il gioco del potere che dovrebbe invece bilanciare! Forse non basta evocarla, se prima non viene messa alla prova al pari di quella fede da cui dovrebbe essere l’eco (cfr 1Pt 1,7).

Chi e come
È inevitabile chiedersi quali soggetti, con che modalità e in quali luoghi si sviluppi tale opinione pubblica: ciò avviene, trasversalmente, sul confine di una fede che vuole fare breccia in un mondo tanto adulto quanto smarrito, ad opera di credenti che si fanno carico della pesantezza storica di una cristianità ancora egemone, da rimuovere per fare spazio a stili di chiesa pronosticati ma da rendere praticabili. E il punto di appoggio per questa impresa è la laicità!

Alberto Bruno Simoni
Animatore di Koinonia (Pistoia) e socio fondatore di Viandanti

[Pubblicato l’ 1.8.2011]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: Chotez.blogspot.com]

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