UNA COMUNITÀ CELEBRANTE
PRENDE LA PAROLA
Giancarlo Martini
Proseguo la riflessione avviata con il precedente articolo apparso recentemente in questo sito con il titolo “Per una comunità celebrante”.
Un significativo cambiamento di mentalità nella prospettiva di diventare una comunità celebrante è avvenuto da quando, oltre dieci anni fa, i laici, fortemente sollecitati dall’anziano presbitero che presiedeva le nostre liturgie (“non è il prete l’unico depositario, l’unico esperto della Parola, ma tutti hanno un contributo unico e insostituibile da offrire”) hanno iniziato a prendere la parola durante la liturgia, in particolare nell’offrire dopo la lettura del vangelo e prima dell’omelia un proprio breve contributo di riflessione su come quel vangelo proclamato è per noi oggi una buona notizia [1].
Il noi ecclesiale, prima del prete
È stata un’esperienza fondamentale per molti nel far maturare un modo diverso di partecipare alla liturgia. Il prender la parola si è ulteriormente arricchito nelle esperienze che una parte della nostra comunità sta facendo attraverso liturgie domestiche tra famiglie da noi predisposte durante questo ormai lungo periodo pandemico, consentendo così la partecipazione anche di persone anziane più esposte al pericolo del virus e di persone lontane.
Spesso Enzo Bianchi pone la domanda: “quando la Chiesa permetterà a dei fedeli, uomini e donne, preparati, scelti e riconosciuti nel carisma di spezzare la Parola, di intervenire con ordine nell’omelia presieduta dal presbitero?” (Jesus, marzo 2020)
La partecipazione attiva della comunità si esprime poi anche nella predisposizione settimanale della preghiera penitenziale iniziale e della preghiera dei fedeli e in genere nel rinnovamento del linguaggio liturgico di cui parleremo in seguito.
Se al primo posto c’è la comunità, il noi ecclesiale, e non il prete o i suoi eventuali collaboratori, occorre fare in modo che tutti coloro che fanno parte della comunità si riconoscano responsabili e scoprano i propri doni e carismi a vantaggio di tutti. Prioritario è allora, il compito di far nascere e crescere comunità cristiane fraterne formate da persone in grado di prendere in mano la bibbia, di nutrirsi del cibo delle Scritture, di celebrare il culto della vita donata e condivisa.
Promuovere forme di responsabilità diretta
Senza questa prospettiva preti e eventuali collaboratori assorbiranno tutti i carismi e tutte le funzioni di una comunità, funzioni e compiti che oltretutto volentieri la comunità tende a delegare. In una piccola comunità, al di là di alcune funzioni che richiedono competenze specifiche, molti sono i compiti che tutti possono svolgere, e che pertanto non vanno requisiti dal prete o dai suoi collaboratori
Anche l’attuale tendenza a moltiplicare il numero dei ministeri può dare ulteriore alimento ad una visione clericalizzante. Non è necessario istituire per esempio un ministero straordinario dell’eucaristia. È così bello quando un marito, una moglie, un parente, un vicino porta il pane della vita spezzato e condiviso durante la celebrazione dell’eucaristia alla persona cara o vicina malata. I rapporti di amore e di amicizia che legano le persone trovano qui un’ulteriore valorizzazione e ricchezza. Come pure, nel periodo pasquale, è così denso di significato il gesto di un papà o di una mamma che benedicono la propria casa e la propria famiglia con l’acqua battesimale della veglia pasquale, senza dover far ricorso necessariamente a uomini o funzionari del sacro, favorendo così una maggiore comprensione del gesto di benedizione che corre facilmente il rischio di essere ridotto a gesto scaramantico-protettivo o identitario. Sono tutte forme di esercizio del sacerdozio comune dei fedeli che vanno continuamente tenute presenti, favorite, ampliate.
Anche l’accoglienza delle persone all’inizio di una celebrazione liturgica è un compito che molti potrebbero assumere nella comunità.
Se non si incentivano e non si promuovano queste ed altre forme di diretta responsabilità (per le quali non è necessaria una preparazione accademica) continuerà a trionfare una visione tutta gerarchica, verticistica e clericale della comunità cristiana. E difficilmente una comunità sarà una comunità celebrante.
Il ruolo di chi presiede
Dall’esperienza fatta lungo decenni mi sono sempre più reso conto dell’importanza del ruolo di chi presiede una liturgia. Può apparire una considerazione in contraddizione con l’assunto che tutta la comunità è celebrante. Ma proprio una comunità celebrante richiede un prete che non si ritenga senza battesimo (per usare l’espressione felicemente provocatoria di fr. MichaelDavide Semeraro nell’indicare, nel libro “Preti senza battesimo?” quei presbiteri dimentichi di essere anche e fondamentalmente dei battezzati), che sia convinto non di celebrare ma di presiedere una celebrazione, che non si comporti da unico protagonista, che valorizzi la presenza delle persone presenti, che si faccia da parte per far posto agli altri, che ritenga di dover imparare e non solo insegnare, che sia un fratello e, speriamo al più presto, una sorella nella comunità (“non chiamate nessuno padre perché uno solo è il padre vostro” Mt 23,9).
Se chi presiede non è un uomo (o donna) della comunità, ma solo un funzionario del vescovo, diventa quasi impossibile per un’assemblea superare la condizione di passività a cui è abituata.
Uno dei gesti più potenti che faceva l’ultranovantenne presbitero che presiedeva le nostre celebrazioni era quello di andare a sedersi tra i banchi accanto alle altre persone durante tutta la liturgia della Parola. Tutti siamo uditori della parola, tutti siamo evangelizzatori. Se i ministri ordinati devono presiedere l’eucaristia, perché presiedono la comunità e le garantiscono unità e apostolicità della fede, la loro parola deve promuovere e accogliere anche la parola dei laici in cui risuonano le sofferenze e le gioie, le fatiche e le speranze del mondo di oggi.
Una liturgia che usa una lingua viva
Infine desidero prendere in considerazione il linguaggio della liturgia. Perché ci sia una comunità celebrante, una comunità che celebra il vangelo, perché non ci si senta spettatori passivi, e quindi per lo più annoiati, di un’azione dalla quale si è di fatto esclusi, è necessario che anche il linguaggio, nelle sue molteplici espressioni, sia udibile e comprensibile dalle donne e dagli uomini di oggi.
Tutta la liturgia avrebbe bisogno di un aggiornamento nel linguaggio, come da tempo sostiene ad esempio Goffredo Boselli («Occorre anzitutto riconoscere che il primo ostacolo per una gran parte di coloro che partecipano alla liturgia è rappresentato dal linguaggio liturgico», in Celebrare da cristiani nell’età secolare, Osservatore Romano del 19 agosto 2016) che spesso veicola visioni non più accettabili di Dio, non più corrispondenti alla nostra fede attuale.
Non basta allora qualche ritocco alla traduzione del Messale, da poco uscito nella terza edizione, perché risuoni nella celebrazione una lingua viva. È necessario che ci sia “invenzione, riformulazione, dialogo, sinodalità”. Non si possono ripetere acriticamente formule nate nel primo millennio, né si possono mantenere immagini di Dio che non corrispondono più al nostro modo di esprimere oggi la fede.
La fedeltà non può essere semplice ripetizione
Più volte nella comunità di cui faccio parte ci siamo interrogati sull’importanza del linguaggio e sulla necessità di usare nelle celebrazioni e nella preghiera parole significative per noi oggi. È vero che crediamo grazie alla testimonianza delle persone che ci hanno preceduto e che ci hanno aiutato a metterci in ascolto della Parola, in ascolto delle sofferenze, delle gioie e delle speranze delle donne e degli uomini di oggi.
Tuttavia la fedeltà a quanto abbiamo ricevuto non sta nella semplice ripetizione esatta di parole e di gesti che ci sono stati trasmessi, ma nel riattualizzare il loro senso nella nostra cultura, nel nostro modo di pensare, di vivere, di esprimerci, in un mondo secolarizzato sempre più plurale e in divenire. Per questo abbiamo cercato delle forme di espressione della nostra fede che, benché non esaustive, non siano percepite come «straniere» ma più in sintonia con il nostro modo di pensare e di vivere.
Sarebbe auspicabile che venissero non solo tollerate ma sollecitate sperimentazioni anche in questo campo. Come dice Alberto Maggi :
“il nuovo messale che vuole essere un sussidio per aiutare a vivere e celebrare con pienezza l’eucaristia, non deve essere pertanto visto come una camicia di forza che delimiti i movimenti dell’assemblea, ma come uno strumento che favorisca la sua libertà creativa, tenendo sempre presente il monito di Paolo che “la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita”.
Anche su questo aspetto sarebbe bello se “Viandanti” riprendesse l’iniziativa promossa due anni fa dal quindicinale “Rocca”, poi purtroppo interrotta, di raccogliere e dare spazio ai tentativi fatti da tanti di dire la nostra fede in un linguaggio udibile dalle donne e dagli uomini di oggi. Una iniziativa simile è stata promossa anche dalla “Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones”.
Il cammino per diventare una comunità celebrante, davvero sinodale, nella convivialità attorno alla mensa della Parola e del pane della vita che illumina e si illumina nel gesto del chinarsi per lavare i piedi di chi è affaticato, è ancora agli inizi e riguarda tutti, nessuno escluso.
Giancarlo Martini
Presidente dell’Associazione culturale “don Giacomini” e referente del gruppo di “Fine settimana” di Verbania (VB), che aderisce alla Rete dei Viandanti
[1] L’esperienza si riferisce alla comunità di santo Stefano di Verbania.
[Pubblicato il 16 febbraio 2021]
[L’immagine è ripresa dal sito www.catt.ch]
Nel sito si possono leggere anche:
Martini G., Per una comunità celebrante (10.1.2021)
Boggiani R., Ricominciare dalla preghiera dei fedeli (29.11.2020)
Grillo A., Francesco e l’azione liturgica (10.2.2020)
Codrignani G., Il Credo: da riesaminare e riscrivere (24.9.2017)
Radunata in Assemblea, meditata, raccolta in orante ascolto della Parola Consacrata?
Certamente sì.
Ma una volta sciolto l’incontro, usciti di Chiesa…
Viandanti, noi, pellegrini della fede in cammino verso la Terra Promessa; esiliati in noi stessi, dall’Ascolto celebrato, contemplato insieme alla diretta personale testimonianza, si passa direttamente alla Persona amorosa del Crocifisso-Risorto.
Molti credenti, nella casa di Dio, ma quanti veri testimoni del Vangelo?
Quanti profeti dello Spirito Santo, presenti oggi, come ieri partendo dai primi Discepoli di Cristo?
Come è vero che i Cristiani si riconoscono nello spezzare il pane della Fede, della Speranza, della Carità reciproca, viene spontaneo pensare, urgenza di conversione personale e comunitaria a “LUI” il Crocifisso, il non amato.
Incarnare, umanizzare l’Amore di Dio presente in noi, è GRAZIA e cilicio feriale, personale e collettivo poichè: è lo SPIRITO SANTO, umanizzato in Cristo che ci salva e salva il mondo.
Diversamente, non illudiamoci sulla splendida parola: COMUNITA’ CELEBRANTE.
Terrj Ampollini Ferrari
[Testo inviato tramite lettera, ndr]
Stupendo grazie
Bravissimo sig. Martini, ma è almeno dai primi anni ’70 che si dicono e si fanno (ormai solo pochissime comunità o gruppi) queste eucaristie… ma non c’è più sordo di chi non vuol sentire.
E’ il potere dei ‘gerarchi religiosi’ bellezza!!