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CAMMINO SINODALE ITALIANO
NOTE A MARGINE DEL “MESSAGGIO”
AGLI OPERATORI PASTORALI

Ernesto Borghi

Il percorso sinodale è iniziato: papa Francesco ha dato il via domenica 10 ottobre, il giorno prima dell’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Molte sono le domande a cui è stato proposto di rispondere, in un articolatissimo questionario diffuso in tutto il mondo, a cui sarà saggio replicare scegliendo alcune questioni realmente prioritarie tra le tante segnalate.

I vescovi cattolici italiani hanno pubblicato, il 29 settembre scorso, un documento ufficiale introduttivo al percorso sinodale in Italia intitolato Cammino Sinodale delle Chiese che sono in Italia. Messaggio ai presbiteri, ai diaconi, alle consacrate e consacrati e a tutti gli operatori pastorali. Rprendendone i titoli dei paragrafi, mi permetto di proporre quello che mi parrebbe fondamentale in questo nuovo cammino ecclesiale.

Un “Messaggio” per tutti
Non posso non notare che dal titolo e dal sottotitolo del documento il punto di partenza è tutt’altro che “sinodale”. Parlare di “Chiese” senza limitare chiaramente l’ambito alle comunità cattoliche romane è rispettoso delle altre confessioni cristiane presenti in Italia? E presentare, ancora una volta, nel sottotitolo, la successione “gerarchica” dai presbiteri alla generica formulazione “operatori pastorali”, non è un avvio particolarmente brillante. Si dirà: “si fa abitualmente così”. Proprio per questa ragione, sarebbe stato opportuno dare da subito un segnale inequivocabile anche a livello ecumenico.

Tutti gli stati di vita devono essere coinvolti con eguale dignità in questo importantissimo processo di radicale rinnovamento, pur considerando che le responsabilità di un presbitero, in specifico se parroco, anzitutto in Italia, ancora oggi sono, sotto il profilo della vita ecclesiale ordinaria, mediamente assai maggiori rispetto a quelle della gran parte di coloro che presbiteri non sono.

Un cammino già avviato con vari elementi di criticità
I vescovi cattolici italiani affermano che un cammino ecclesiale è già avviato. Hanno ragione: non poche comunità ecclesiali, dal Brennero a Lampedusa, vivono già secondo una dimensione comunionale che non ha alcun rapporto sostanziale con il verticismo progettuale, organizzativo e gestionale presbiterocentrico che contraddistingue tante altre istituzioni parrocchiali ed ecclesiali in genere.

D’altra parte è noto che l’ostacolo più importante al superamento di tale deprecabile situazione è il fatto che ogni parroco è responsabile ultimo di tutto ciò che avviene nella sua parrocchia a cominciare dalla gestione finanziaria, per la quale non dovrebbe avere le competenze necessarie, visto il ministero essenziale che la sua vocazione lo chiama a vivere. Tale condizione di assurdo carico di responsabilità può essere vissuta con modalità di condivisione più o meno consultiva con chi non è parroco, ma la sostanza finale è questa.

Occorre, pertanto, una strutturazione delle parrocchie che crei non delle unità pastorali guidate sempre e soltanto da presbiteri (come sta avvenendo spesso anche in Italia), ma delle équipes pastorali con esponenti di vari stati di vita, responsabili, a livello professionale nel senso etimologico della parola, della “conduzione” di una o più parrocchie. Le responsabilità pratiche ultime andrebbero ripartite in modo diverso da oggi…Sarebbe cosa buona e giusta per il bene complessivo di tutti, persone ed istituzioni…E sarebbe una testimonianza di “sinodalità” effettiva…

Superare il “si è fatto sempre così”
Per poter essere oggi in ascolto dello Spirito, che indubbiamente in ogni epoca ha parlato e parla alle comunità ecclesiali, bisogna aprire i cuori e le menti, dunque la propria vita quotidiana all’amore del Dio di Gesù Cristo, che è lo Spirito in questione. Come è possibile farlo? A qual scopo? Per promuovere, credo, tramite un’effettiva libertà di coscienza in ogni contesto ecclesiale (occorre riconoscere che tale libertà, con papa Bergoglio, ha avuto nella Chiesa cattolica un diritto di cittadinanza prima assai meno rilevante, per non dire inesistente) così da favorire quello che Paolo proponeva come del tutto essenziale ai suoi destinatari in Galazia nel I secolo d.C: l’attenzione esistenziale ad una fede che si costruisce attraverso l’amore fraterno (cfr. Gal 5,6).

In questo senso è davvero opportuna la citazione di un passaggio importante del documento programmatico del pontificato di Francesco: «La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità» (Evangelii Gaudium 33). Tutto va ripensato, ma non con lo spirito di chi deve inventare ex novo come se già non esistessero anche in territori vicini esperienze significative a cui guardare con intelligenza.

I gemiti dello Spirito e delle comunità cristiane
Essere attenti ai gemiti dello Spirito di cui parla, per esempio, la lettera ai Romani, vuole certamente dire, nella nostra contemporaneità, centrare la comunità cristiana più che mai sull’attenzione ai poveri, sul rispetto delle relazioni tra le persone in ogni contesto ecclesiale, sul rispetto promozionale dell’ambiente naturale e del patrimonio artistico, quest’ultimo in larga misura, frutto di interpretazioni multiformi delle fonti bibliche e della teologia cristiana. In tutti questi ambiti c’è moltissimo da fare.

La pandemia stessa ha mostrato le differenze esistenti tra comunità ecclesiali attive e dinamiche a vario livello (non poche) e comunità variamente inadeguate (molte). La centratura troppo spesso quasi assoluta sulla celebrazione dei sacramenti, a cominciare dall’eucaristia, ha dimostrato un gravissimo diffuso deficit di sensibilità culturale (”culturale” nel senso esistenziale di “Evangelii gaudium”) circa l’importanza della parola di Dio contenuta nelle Scritture bibliche per l’educazione cristiano-cattolica generale. E questi ultimi anni mi pare abbiano palesato quanto deficitaria sia la collaborazione all’interno delle parrocchie, tra parrocchie vicine e in tanti altri contesti ecclesiali. Fare “comunione”, non “omogeneizzazione” acritica e burocratica è obiettivo prioritario per dare un avvenire effettivo – penso, in primo luogo, a chi oggi ha meno di vent’anni – all’ordinarietà normale della vita della Chiesa cattolica in Italia.

La Bibbia al centro della pastorale
Il “Messaggio”, al paragrafo «Il “senso della fede” e il linguaggio narrativo», cita un altro brano di “Evangelii gaudium”: «Il Popolo di Dio è santo in ragione di questa unzione che lo rende infallibile “in credendo”. Questo significa che quando crede non si sbaglia, anche se non tro- va parole per esprimere la sua fede. Lo Spirito lo guida nella verità e lo conduce alla salvezza. Come parte del suo mistero d’amore verso l’umanità, Dio dota la totalità dei fedeli di un istinto della fede – il sensus fidei – che li aiuta a discernere ciò che viene realmente da Dio. La presenza dello Spirito concede ai cristiani una certa connaturalità con le realtà divine e una saggezza che permette loro di coglierle intuitivamente, benché non dispongano degli strumenti adeguati per esprimerle con precisione» (Evangelii Gaudium, 119).

Questo estratto è da intendere, mi sembra, in senso promozionale e provocatorio. Lo Spirito sussiste, ma senza l’apertura di cuore e di mente delle persone, apertura dipendente dalla loro libera responsabilità, nulla succede. Non ci sono processi “magici” o “automatici” da attendersi. Se “salvezza”, significa, testi biblici alla mano, “pienezza di vita”, la saggezza proveniente dallo Spirito di cui parla papa Bergoglio è raggiungibile abbandonando ogni idea precettistica e moralistica della fede cristiana, e chiedendosi quanto e come quella fede che si costruisce attraverso l’amore fraterno possa entrare nell’esistenza individuale e collettiva.

Una testimonianza fondamentale della volontà divina, che sia disponibile anche oggi, è, più che mai, la rivelazione contenuta nel Primo e nel Nuovo Testamento. Vi è un bisogno davvero vitale di un progetto formativo, adattabile alle singole realtà regionali, diocesane e interparrocchiali, che metta l’analisi e l’interpretazione esistenziale, cioè seria ed appassionata, della Bibbia al centro della pastorale ordinaria della Chiesa cattolica. Abbiamo strumenti di ogni livello e molte persone competenti per idearlo e metterlo in atto: occorrono risorse significative per passare dalle parole ai fatti…E il denaro necessario c’è sicuramente: occorre avere la volontà politico-ecclesiale di utilizzarlo a questo scopo radicalmente formativo e seriamente evangelizzante…

Una scelta profetica: fare cultura
Ferma restando la speranza che il processo sinodale in fase di avvio porti a risultati effettivamente incisivi. L’orizzonte temporale dato dalla CEI in Italia mi pare davvero eccessivamente esteso ed è piuttosto diffusa l’impressione che per non pochi vescovi italiani il tutto sia un fastidio disturbante, non una grande opportunità per guardare al presente e al futuro in termini di cambiamento maturante per tutti. Comunque ogni analisi e prospettiva deve radicarsi, mi pare, in un’idea di fede cristiana precisa: non un armamentario di regole di comportamento a cui obbedire, ma la fiducia libera e liberante nella bellezza e nella bontà dell’amore di Dio in Gesù Cristo, nella possibilità effettiva che tale amore si possa realizzare ovunque, con tutti i limiti personali e collettivi, ma anche con tutte le doti a disposizione.

E, pur in attesa di quanto scaturirà di bello e di buono dal processo sinodale, in Italia e nel mondo, da tempo immemorabile vi è una questione aperta, risolta la quale, tante inadeguatezze formative anche della Chiesa cattolica italiana potrebbero diventare un ricordo: sapere che cosa significhi fare cultura e essere propositivi ed attivi di conseguenza.

Cultura nel senso di coltivazione reale di quanto umanizza la vita delle persone, senza settarismi e devozionismi, in apertura generosa e intelligente verso tutti. Troppe persone anche nelle realtà ecclesiali cattoliche, in ogni stato di vita, non sanno che cosa ciò voglia dire e quanto sia importante agire in questa direzione per elevare la qualità della vita quotidiana (magari confondono cultura con erudizione…).

Una scelta “profetica” per oggi e per domani si può già fare senza attendere la fine del processo sinodale: chiedersi seriamente che cosa voglia dire fare cultura religiosa oggi in Italia, dalle istituzioni accademiche teologiche agli ambiti della multimedialità (editoria, televisione, web) al patrimonio artistico in senso ampio, anche considerando la diffusione delle proposte formative su internet che la pandemia in corso ha reso assai più numerose ed ampie anche del recente passato.

Fede religiosa cristiana e cultura non sono alternative: la fede in oggetto è una dimensione importante della cultura di una persona, secondo quanto ritenga bello e giusto darle spazio nella propria esistenza, facendola orientare da essa. E tante donne ed uomini, di ispirazione culturale non cristiana, si aprono volentieri a questa dimensione della vita, quando non sa di indottrinamento e di autoritarismo, come anche molte altre e molti altri che erano una volta di tale ispirazione e se ne sono allontanate per molte ragioni…Pensiamoci seriamente…

Ernesto Borghi
Membro del Comitato di redazione della rivista “Dialogi” (Lugano), che aderisce alla Rete dei Viandanti.
Presidente dell’Associazione Biblica della Svizzera italiana
(http://absi.ch/new)
Coordinatore area Europa del Sud e dell’Ovest della Federazione Biblica Cattolica (https://c-b-f.org/e della formazione biblica nella Diocesi di Lugano.

[pubblicato il 10 novembre 2021]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: “lecronachelucane.it”]

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