ESSERE, DIVENTARE VIANDANTI
ULISSE E ABRAMO
Marco Bertè
Nel cammino verso la nostra Assemblea soci, che si terrà il 30 novembre, stiamo pubblicando a puntate le riflessioni, o meglio la lunga meditazione sull’essere viandanti, che Marco Bertè, uno dei soci fondatori, ci ha donato con questa dedica: “Una meditazione dedicata agli amici dell’Associazione Viandanti, con il piacere di ricordare un’idea e un’amicizia”. Una preparazione remota della quale ringraziamo molto Marco. [V]
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Per comprendere la logica del viandante è necessario contrapporre ad Ulisse Abramo. Figura del viandante, dell’autentico viandante, non è Ulisse. È Abramo.
Ecco: autentico viandante è Ulisse, che torna a casa sospinto dalla nostalgia e dal desiderio di Itaca e della sposa, o Abramo che cammina verso ciò che non sa, chiamato da una voce misteriosa? Non v’è dubbio: non è Ulisse l’autentico viandante. È Abramo. È chiaro che chi ritorna, come Ulisse, vede prossima la conclusione del suo cammino e, appena giunto, non sarà più viandante, non sarà più lungo la via. E chi, come Abramo, cammina non sa verso dove, solo chiamato da una voce misteriosa, non sa né attende alcun ritorno, è sempre sulla via, sempre viandante.
Un autentico viandante
Ma veramente Ulisse è sempre rivolto solamente a sé, e Abramo sempre rivolto solamente ad Altro e agli altri? Non è forse vero che Ulisse, appena abbracciata la sposa e prima ancora di gustare le gioie del talamo, le rivela la predizione di Tiresia, “Ancora alla fine di tutte le prove non siamo giunti, ancora mi resta smisurata fatica” (Odissea, XXIII, 248-49)? E già si dispone a riprendere il cammino, ancorchè dopo lungo tempo, e ad affrontare, ormai avanti negli anni, nuove avventure. E tornerà nuovamente a casa e finalmente si spegnerà, “vinto da serena vecchiezza”.
Ma se l’andare di Ulisse sembra non arrestarsi ad Itaca, tra le braccia della sposa, ma essere destinato a procedere oltre, l’andare di Abramo non è senza meta, non si muove solamente verso l’Altro da sé, ma, pur in questo movimento, insegue e trova il suo Io più profondo, la sua vocazione, la sua terra, la sua discendenza, Dio stesso. L’ingiunzione divina di mettersi in cammino, di lasciare terra, parentela, casa paterna verso un altrove sconosciuto suona, in ebraico, Lekh Lekha, una espressione resa, in italiano, per lo più con “Vattene”, ma che significa, letteralmente, “vai a te”, “vai verso di te”, “vai per te” e che Rashi, uno dei più famosi commentatori medievali (1040/1105), interpreta: vai “per il tuo bene e il tuo vantaggio”. L’andare di Abramo è dunque anche un andare verso il suo Sé profondo, un cammino verso l’interiorità.
Che diremo allora? Che la ricerca di sé e la ricerca dell’Altro si accompagnano fino a confondersi? Magari riconoscendo che l’alterità più radicale è quella del Sé o che la familiarità più intima è quella dell’Altro? Raggiungendo così le altezze e profondità più ardue della mistica e la inquietante attrazione del viaggio interiore? In effetti vi è qualcosa che richiama queste altezze e profondità e questa attrazione. Ed è l’andare oltre di Abramo. Un andare oltre in tutti i sensi e tale da costringerci – questa volta sì, questa volta davvero – a riconoscere che Abramo, non Ulisse, è l’autentico viandante, colui per il quale il camminare è la forma più propria dell’essere.
La dedizione di Abramo
Abramo è l’autentico viandante, non tanto quando il Signore gli ingiunge di lasciare la sua terra (Gen 12), quanto piuttosto quando gli ingiunge di offrire in olocausto il figlio Isacco (Gen 22). Nel primo caso «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò”» (Gen 12,1-2). Abramo obbedisce e va, anche se il luogo indicato è ancora incerto, e crede alla promessa di una discendenza, anche se non si concilia con la sterilità della moglie Sara.
Nel secondo caso, quando – dopo una fatica e un’attesa snervanti, finalmente con sua immensa gioia nasce Isacco e dopo ch’egli ha potuto godere a lungo del figlio – Dio si manifesta ancora per metterlo nuovamente alla prova. «Dio mise alla prova Abramo, e gli disse: “Abramo!”. Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”» (Gen 22,1-2).
Anche in questo caso Abramo obbedisce e va. Va, ma con quale strazio! Va con Isacco, il padre per immolare il figlio, il figlio per essere immolato dal padre. Va, rinunciando al figlio e alla promessa. Va e cammina verso la morte del figlio, che è anche la sua stessa morte, per obbedire ad un comando senza giustificazione alcuna, che fa dubitare di Dio stesso. Ma allora perché obbedisce? Forse – è l’unica spiegazione che possiamo tentare – perché la sua fede è tale da fargli ritenere che alla fine Dio, in un modo misterioso che a lui non è dato nemmeno immaginare, gli restituirà il figlio. E noi sappiamo che l’epilogo sarà proprio questo: sacrificato l’ariete, procurato da Dio, al posto di Isacco, Abramo riottiene il figlio e la promessa ed è nuovamente e abbondantemente ricolmato dalle benedizioni divine.
Le due ingiunzioni – di lasciare la propria terra e di offrire in olocausto il proprio figlio – hanno un’analogia sorprendente. L’ordine di andare, di mettersi in cammino (vattene!, va), di rinunciare a quello che ha di più caro (il paese, la patria, la casa paterna; il figlio amato), il mistero sul luogo in cui dovrà consumarsi la rinuncia (verso il paese che io ti indicherò; su di un monte che io ti indicherò) si ripetono e richiamano puntualmente. La struttura delle due ingiunzioni divine è la medesima: una analogia di cui non si intende la ragione e che perciò ci interroga e su cui dovremo tornare.
Se l’analogia è sorprendente, la diversità è enorme: la rinunzia al paese, alla patria, alla casa paterna può essere stata dolorosa e difficile, ma non può assolutamente essere paragonata alla rinunzia al figlio. La prima ha come contropartita la promessa e la benedizione, è aperta all’avvenire, ad una discendenza innumerabile ed al possesso della terra; la seconda non ha contropartita, è in sé chiusa e conclusa, apre solo una prospettiva di dolore e solitudine.
Scopri chi sei e chi è il tuo Dio
Lévinas contrappone Abramo ad Ulisse. L’andare di Ulisse è un ritorno a casa, un ritorno a se stesso, una chiusura nell’Io. L’andare di Abramo è un cammino verso l’ignoto, verso luoghi e destini imprevedibili: uscita dall’Io verso l’altro da sé. Questa interpretazione di Abramo però, a ben vedere, può essere vera solo per il cammino di Abramo verso il Monte Moria, per offrire Isacco in olocausto. Non si regge (o si regge solo in parte) per quanto precede.
Fin dall’inizio della sua storia Abramo rinunzia al paese, alla patria, alla casa paterna e va lontano, seguendo l’ingiunzione divina. Va verso Dio. Ma andando verso Dio, nonostante il prolungarsi dell’attesa, nonostante i dubbi e le incertezze, va verso se stesso, verso la sua discendenza e la terra che gli è promessa. Non esce interamente da sé. Ma quando prende il figlio per offrirlo in olocausto, lascia tutto, va verso Dio e null’altro. Esce da sé nel modo più radicale.
Eppure, anche in questo tragico frangente l’ingiunzione divina si esprime con la stessa formula che ha dato inizio all’andare del patriarca. Nelle nostre Bibbie leggiamo “va”, ma l’originale ebraico reca anche qui Lekh Lekha e dunque “vai a te, vai verso te e per te, vai per il tuo bene e il tuo vantaggio”. E allora? Sappiamo come tutto va a finire. Dio “si provvede, provvede a se stesso” l’agnello.
Dobbiamo forse dire che Dio vien meno alla sua parola? Che si contraddice? Che cede di fronte ad Abramo? Forse possiamo dire anche questo. Forse possiamo scoprire lati imprevedibili e incomprensibili del dialogo dell’uomo con Dio. Ma possiamo anche dire che l’Altissimo, mettendo alla prova Abramo, mette alla prova se stesso. E forza l’uomo a scoprire, o almeno presentire, ad un tempo, la sua vocazione e l’insondabile mistero divino. Come dicesse: scopri chi sei! Scopri chi è il tuo Dio!
Che Dio è mai questo?
È questo allora che cerca il viandante? Uscire da sé nel modo più radicale? Ascoltare una voce assolutamente altra? Obbedire a ciò di cui non può disporre? Può essere così. Ma allora fino a che punto è vero che cammina solo per il piacere di camminare?
Abramo, salendo il monte Moria, va verso Dio. Davanti a sé ha solo l’infinita maestà del totalmente Altro. Tutto il resto si cancella: il suo mondo, i suoi cari, le stesse promesse divine. Lui, Abramo, obbedisce all’ingiunzione ricevuta. Obbedisce, si mette in cammino e tace. Tace con i suoi cari: iniziando il cammino non dice nulla di ciò che sta per fare alla moglie Sara ed ai servi; e non dice nulla ad Isacco, mentre lo conduce per immolarlo. E tace con Dio, a cui non chiede un perché, da cui non invoca misericordia, con cui non lotta – come lui stesso aveva fatto altre volte, ma per altri, come farà Giacobbe, come farà Giobbe.
Tace e custodisce nel silenzio il segreto che lo lega a Dio. Ma non può, anche se tace e proprio perché tace, nel chiuso del suo animo, mentre ad ogni passo il tormento si acuisce e lui si sfinisce nell’angoscia, non riproporsi le domande a cui non può rispondere: ma perché l’assoluta dedizione a Dio deve impormi di lasciare coloro che amo? Giacchè, dando la morte a Isacco do la morte anche a Sara ed ai miei servi, una morte anche più atroce di quella fisica; l’interminabile morire, lungo tutta l’esistenza, di tutto ciò ch’essi sono, vivono, sperano.
Al suo disperato domandare, al suo tormento si aggiunge un’altra domanda, che scende ancor più in profondità: perché Dio mi pone in questa situazione, di dover cancellare gli altri, tutti gli altri (il terzo!) dal mio orizzonte? Perché, dopo tutta la benevolenza che in passato mi ha dimostrato, devo ora rinunciare anche alla stessa immagine che mi ha dato di Sé? Che Dio è mai questo? Non può, non deve farsi carico della situazione in cui mi ha posto?
Una sfida con il totalmente Altro
Se dunque Abramo fa a se stesso (non a Dio, non ad altri) queste domande (che immaginiamo noi, ma che egli non può non porsi), se è ragionevole pensare che nel suo animo si agiti questa tempesta, fino a che punto, allora, possiamo dire, come abbiamo detto, che non lotta con Dio?
Di questa lotta, di un suo contendere con il totalmente Altro, c’è in effetti una traccia. Quando Isacco chiede al padre dov’è l’agnello per l’olocausto, Abramo risponde: “Dio si provvederà l’agnello”. “Si provvederà” (traduzione fedele dell’originale ebraico), cioè provvederà a se stesso.
Con queste parole Abramo, più che rispondere a Isacco, si rivolge a Dio. La sua è una sfida. Dio ha messo alla prova Abramo e Abramo mette alla prova Dio. È come se dicesse: Questo sacrificio è affar tuo. Sei tu che l’hai voluto, non certamente io. Io ho obbedito, mi sono fidato di te, mi sono affidato a te. Ora tocca a te fare quello che è giusto. “E la prova, qui – osserva Wiesel, ispirandosi al Midrash (Personaggi biblici attraverso il Midrash) – ha due significati. Dio la fa subire ad Abramo e, contemporaneamente, Abramo la fa subire a Dio. Come se Abramo dicesse: Ti sfido, Signore: mi sottometterò alla tua volontà; vediamo se tu arriverai fino in fondo, vediamo se lascerai fare, vediamo se continuerai a stare zitto quando è in gioco la vita di mio figlio – che è tuo figlio”. Sappiamo come le cose vanno a finire: Dio “si provvede” l’agnello (un ariete) e ricolma nuovamente Abramo di benedizioni. E Abramo riprende il cammino. Riprende ad andare verso ciò che Dio gli aveva promesso.
L’implicazione originaria
Ecco allora il cammino di Abramo: non è solo la salita angosciosa al monte Moria. È oltre. È dove e quando gli sono restituiti Isacco, i suoi cari, la sua vocazione, le promesse ricevute. La dedizione all’Altro – una dedizione assoluta che appariva raccapricciante – si compie non con la cancellazione ma con il dono rinnovato degli altri, dei suoi cari e di tutti gli altri, fino alle generazioni future e fino alla terra promessa.
Il monte Moria diventa la soglia tra la sofferenza e la gioia, la morte e la resurrezione. E stringe in un unico movimento l’andare verso Dio, l’andare verso gli altri e l’andare verso se stessi. Solo così, solo per questo possiamo dire che Abramo, non Ulisse, è figura del viandante. E che il Viandante è tale perché sospinto, misteriosamente e inconsapevolmente, verso l’Alterità comunque concepita. Ma il suo andare non procede se non attraverso prove continue, se non intravvedendo ciò che sta oltre, che gli è promesso, che lo ripaga e lo stimola ad andare sempre più avanti, attraverso la fatica e la sofferenza.
Diciamo allora che secondo la lettura ebraica Genesi 22 può essere visto come espressione della volontà divina di sostituire i sacrifici umani con sacrifici di animali (Isacco è sostituito da un ariete) o, forse più spesso, di salvare il “Figlio” Israele dall’esilio. Secondo la lettura cristiana può essere visto come prefigurazione della morte e resurrezione di Cristo.
Secondo altre letture Genesi 22 può costituire un’esortazione ad affidarsi interamente a Dio, senza condizioni. E può, infine, alludere alla insondabilità di Dio, al suo ad un tempo rivelarsi e nascondersi, rivelarsi nascondendosi (secondo il significato letterale del termine ri-velazione) e nascondersi rivelandosi. Ed è appunto in relazione a quest’ultima lettura che si manifestano i lati più inquietanti del nostro testo, gli aspetti più difficili da interpretare.
Si ricompone e si fa più solida l’unità, la reciprocità, l’implicazione di sé e altro da sé. Quella che si potrebbe chiamare, a ragione, l’unità o implicazione originaria. Originaria perché non causata dall’esterno, ma presente fin dalle origini, costitutiva dell’essere d’ogni uomo, dal primo vagito di chi si apre alla vita fino all’ultimo rantolo del vecchio morente. Non c’è mai Sé senza Altro da Sé, né Altro da Sé senza Sé.
Marco Bertè
Socio fondatore di Viandanti e membro del gruppo “Oggi la Chiesa” (Parma), che aderisce alla Rete dei Viandanti.
[Parte seconda]
Parte prima: Essere, diventare viandanti. Camminare verso dove?
– – Nota – – – –
Questo editoriale è tratto da un testo più ampio intitolato, Essere, diventare viandanti. Verso dove? La versione integrale, in cartaceo, verrà consegnata ai partecipanti della prossima Assemblea dei soci di “Viandanti” (Parma, 30 novembre 2024).
[Pubblicato il 3o.8.2024]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito dell’Österreichische Nationalbibliothek]
C’è una grande differenza che s’impone alla analisi dei miti del cammino da Ulisse ad Abramo…
erano viandanti di se stessi alla ricerca dell’io profondo ma allora non c’era stata nessuna
scoperta scientifica che dimostrava l’origine del tutto – niente dell’Universo, tranne la scoperta
di Aristarco da Samo che aveva scoperto l’esistenza delle galassie nel III° Secolo A.C. e l’eliocentricità degli astri e Jesus lo sapeva e l’aveva trovato scritto sul “Pentateuco dei Samaritani
per cui oggi il vero viandante è colui che cammina nell’interrogativo del sapere e del Capire…
Enzo Samaritani
Molto, molto interessante. Un anno fa, durante la rassegna “ritrovare la Bellezza” a Pieve ad Elici, su mia proposta si è tenuto un incontro a due voci su questo tema. I relatori sono stati Leone Chaim, vice rabbino di Livorno e Emiliano Sarti, scrittore. Vi seguo con passione