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UNA CHIESA FRAGILE
DI FRONTE AL CAMMINO SINODALE

Beppe Elia

Il cammino sinodale nella diocesi di Torino si è avviato con qualche difficoltà. Almeno fino ad ora non è stata colta la portata di questo processo, né forse neppure il significato, almeno in larga parte del popolo di Dio. Eppure la Chiesa torinese negli ultimi due anni è stata luogo di un’iniziativa che potremmo definire “presinodale”.

Un’iniziativa “presinodale”
Nel 2019 si è fatta strada l’idea di preparare un’Assemblea diocesana attraverso un’ampia ricognizione della realtà ecclesiale: incontri con le unità pastorali, associazioni e movimenti ecclesiali, organismi pastorali, congregazioni religiose, ma anche, e questa è una novità interessante, con tutte quelle esperienze più marginali nella vita della Chiesa, e talvolta più critiche.

Purtroppo questo esteso lavoro di ascolto è avvenuto in un tempo segnato dalla pandemia, che ha reso molto difficile incontrare le persone, ed ha in parte impedito o limitato incontri che pure erano stati previsti, ma nel complesso è emerso un quadro della situazione significativo, in cui le luci e le ombre della Chiesa torinese appaiono con sufficiente evidenza e indicano anche alcune linee per il futuro.

Se dovessi dire quali sentimenti prevalenti ho colto negli incontri, soprattutto con la le comunità territoriali (parrocchie, unità pastorali), sottolineerei l’incertezza e il timore del domani.

Certamente il Covid, che ha rivoluzionato la vita delle nostre comunità, ha generato un’inquietudine nuova e un senso di precarietà mai percepito nel passato, con un atteggiamento che oscilla fra due polarità: da un lato l’insopprimibile tentazione (talvolta esplicita ma per lo più riconoscibile dal senso di stanchezza che permea i discorsi e gli atteggiamenti) di recuperare un equilibrio smarrito, e ritornare a celebrazioni liturgiche, ritmi comunitari, incontri catechistici, relazioni interpersonali che hanno subito un’improvvisa interruzione, dall’altro la convinzione che il dopo pandemia cambierà comunque le nostre chiese in un modo oggi inimmaginabile.

La maschera dell’attivismo
In qualche misura questo tempo anomalo, se è vero che ci ha obbligati a fare i conti con un’esperienza fuori del comune, ha gettato una luce su preesistenti limiti e fragilità del tessuto ecclesiale, ma anche sulle potenzialità di un suo rinnovamento.

Il calo della partecipazione alla vita della comunità, che persiste tuttora in tante parrocchie, può essere letto ad esempio come segno di un legame debole fra le persone e la comunità ecclesiale, che non ha retto l’impatto di questa travagliata stagione.

Il sociologo Franco Garelli, che ha esaminato criticamente gli esiti di questa ricognizione ecclesiale, ha correttamente rilevato che l’attivismo di tante nostre realtà aveva mascherato questioni centrali come “il tipo di fede che viene proposta e trasmessa dalle nostre comunità, di quale rappresentazione di Dio venga veicolata dalla nostra presenza; vista la ’poca fede’ delle persone che prima frequentavano e ora sono disperse e il grande vuoto dei ragazzi e dei giovani nei nostri ambienti”.

Anche se, ed è ancora Garelli a segnalarlo, ci sono stati anche spunti interessanti che hanno riguardato in particolare nuove esperienze e nuovi stili di preghiera liturgica e comunitaria, le forme della comunicazione, il bisogno di gesti di accoglienza e di amicizia, la valorizzazione delle esperienze di fraternità e di solidarietà che si sono in molti luoghi realizzate.

La difficoltà di ripensare le forme ecclesiali
La mia impressione è comunque che, in larga parte, le persone (laici, preti, diaconi, religiosi/e,) che si sono espresse, pensino al futuro della Chiesa mantenendosi dentro un modello che non si discosta da quello del recente passato. Le indicazioni di cambiamento (alcune anche molto apprezzabili), che sono state formulate, sono spesso, nella sostanza, integrazioni o correzioni dell’esistente, perché non si riesce a concepire, dall’interno, che le forme ecclesiali possano essere ripensate alla radice, riformate (e non semplicemente rinnovate), come dice papa Francesco in Evangelii Gaudium: quando si parla ad esempio del rapporto fra parrocchie e unità pastorali, e fra la base ecclesiale e il centro diocesi, o del ruolo dei diaconi, si individuano certamente dei problemi reali, ma a cui si danno risposte prevalentemente sul piano organizzativo e dell’efficienza, lasciando molto sullo sfondo la domanda su come la Chiesa debba ripensarsi in senso più evangelico nel leggere il tempo che abitiamo, nelle sue scelte, nello stile pastorale di ogni sua componente.

Segni di speranza dai margini
Si deve però dar conto di altre voci che hanno dimostrato uno sguardo più aperto, un atteggiamento talora assai critico, ma anche capace di sottolineare istanze personali e collettive e suggerire nuove vie, con grande libertà.

È interessante notare che questi contributi siano pervenuti soprattutto (anche se non esclusivamente) dai gruppi definiti “non istituzionali”, cui partecipano anche persone ai margini della comunità ecclesiale, o dagli insegnanti di religione intervistati (che riportano la situazione problematica dei ragazzi e dei giovani, ma anche le loro attese e le loro disponibilità). In larga parte queste indicazioni sono state raccolte dalla Commissione assembleare, anche se i documenti finali (per la legittima necessità di contemperare voci fra loro non sempre omogenee) smarriscono parzialmente la forza e la nettezza con cui esse sono state espresse.

Quattro conversioni pastorali
Il teologo Duilio Albarello, che di questi resoconti ha fatto una sua lettura, ha descritto in quattro “conversioni pastorali”, gli elementi più qualificanti che da essi traspaiono. Nel sottoscrivere queste prospettive, richiamo sinteticamente alcuni aspetti.

Passare dalla sola sacramentalizzazione all’evangelizzazione integrale.
La Chiesa deve testimoniare il messaggio evangelico nella sua essenzialità e radicalità, accentuando il carattere comunitario della fede cristiana, con uno stile gioioso, di misericordia, di speranza, offerta anzitutto a chi si trova nella sofferenza e nella povertà.

La dimensione comunitaria si deve esprimere nella fraternità, nella cura attenta delle relazioni interpersonali, attraverso cui si comunica la fede. Serve una Chiesa più conviviale, fatta di gesti anche semplici.

Occorre riflettere sulle celebrazioni liturgiche, nelle quali in molti casi si constata la debolezza del tessuto comunitario e la difficoltà a rendere comprensibile un linguaggio che appare a molti lontano e insignificante; senza dimenticare che, oltre la celebrazione eucaristica, ci sono altre forme cui dare spazio (liturgia delle ore, della Parola, lectio divina) e le liturgie domestiche.

Serve una Chiesa meno autoreferenziale in cui le unità ecclesiali territoriali creino luoghi di incontro e di dialogo (e magari anche di festa) aperti a tutti, gestiti dai laici, dove ci si possa confrontare sui problemi del territorio, sui problemi sociali che la gente sente più urgenti, e anche su temi culturali e spirituali, ricordando che per far incontrare il Vangelo dobbiamo imparare a parlare col mondo invece di parlare al mondo. In questi luoghi si possono proporre anche momenti di riflessione biblica, per i credenti, ma aperti a tutti.

Passare dalla supplenza clericale alla corresponsabilità testimoniale.
L’istanza comunitaria richiede un graduale superamento della struttura piramidale della Chiesa, e di ripensare l’accesso ai ministeri, promuovendo il ruolo anche decisionale dei laici, sia uomini che donne, e riconoscendo alle donne l’accesso al diaconato.

È urgente provvedere ad un’adeguata formazione dei laici e delle laiche che assumano ruoli di responsabilità nelle strutture e nelle unità ecclesiali, sollecitando una loro presa di parola e la loro creatività. Ancor più fondamentale è l’impegno di testimonianza evangelica nelle varie forme della vita sociale, civile, culturale, professionale, familiare.

Passare dall’attivismo pastorale alla formazione teologica.
Occorre incrementare la riflessione teologica che sappia compiere un’opera di mediazione tra il Vangelo e la cultura in cui siamo immersi e offrirla come servizio alla comunità dei credenti, superando due pregiudizi molto radicati: una concezione intellettualistica della teologia e una visione attivistica della pastorale. Avendo consapevolezza che stiamo rischiando narrazioni vuote, perché i giovani non hanno ricevuto alcuna trasmissione della fede (dai nonni e in genere dalla famiglia, spiritualmente povera). Questo richiede l’adozione di nuovi linguaggi e nuove forme di pastorale. L’esigenza di superare il dogmatismo richiama la necessità della formazione di cristiani adulti.

Passare dall’autoreferenzialità ecclesiale al dialogo socio – culturale.
Ogni comunità deve avere una sensibilità ecumenica, perseguire la riconciliazione anzitutto fra i cristiani, senza dimenticare il dialogo interreligioso. Occorre operare nei territori, con altre religioni, realtà, singoli che già agiscono dove ci sono fragilità, costruendo reti e sinergie.

La comunità ecclesiale è sfidata sulla sua capacità di abilitare i credenti ad una fede che sia consapevole delle attuali trasformazioni culturali e sociali, in modo da affrontarle non rimanendo sulla difensiva, ma prendendo l’iniziativa di contribuire a orientare quelle trasformazioni stesse con la sensibilità del Vangelo; senza forme di intransigenza e con uno stile dialogico.

Un buon rodaggio
Penso infine, al di là di alcune osservazioni critiche ricevute, che questi due anni di incontri e di elaborazione (i cui risultati sono tutti disponibili sul sito della diocesi di Torino – Assemblea diocesana 2021) possano essere un buon punto di partenza per il cammino sinodale.

La vera scommessa per i prossimi mesi è duplice: coinvolgere attivamente i credenti in questo processo, fornendo loro anche strumenti per aprire gli orizzonti della riflessione, che diversamente rischia di appiattirsi su prospettive di basso profilo, e allargare la consultazione a tanti uomini e donne, che vivono sulla soglia o al di fuori delle nostre comunità, ma non sono insensibili alla dimensione di fede e potrebbero sollecitare la Chiesa italiana ad essere più evangelica e coraggiosa.

Beppe Elia
Membro del gruppo “Chicco di senape” di Torino, che aderisce alla Rete dei Viandanti

[pubblicato il 20 gennaio 2022]
[L’immagine che correda l’articolo è ripresa dal sito: “lecronachelucane.it”]

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Vedere anche la pagina Chiesa italiana. É tempo di Sinodo 

1 Commento su “UNA CHIESA FRAGILE
DI FRONTE AL CAMMINO SINODALE”

  1. “Certamente il Covid ha rivoluzionato la vita delle nostre comunità” scrive l’autore del testo, ma siete sicuri che a sconvolgere la vita delle comunità non siano questi continui scandali della chiesa riguardo gli abusi sessuali che ormai sono endemici, scandali immobiliari, scandali finanziari, ecc. Si avverte un profondo bisogno di respirare aria pulita, l’aria che si respira oggi soffoca svuotando le chiese.
    Distintamente

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